venerdì 15 ottobre 2021

Il governo italiano ci manda contro la forza a perseguitarci; ebbene, facciamogli vedere fin da oggi che noi non abbiamo intenzione di prestargli obbedienza.

 Giuseppe Nicola Summa, detto Ninco Nanco, in dialetto aviglianese Ninghe Nanghe (Avigliano12 aprile 1833 – Frusci13 marzo 1864), è stato un brigante italiano.

Uno dei più devoti luogotenenti di Carmine Crocco, fu protagonista di numerose rappresaglie ai danni di ricchi possidenti e militari sabaudi. Era conosciuto per le sue brillanti doti di guerrigliero, per la sua freddezza e la sua brutalità, attributi che lo resero uno dei briganti più temuti di quel tempo.

Benché noto per la sua efferatezza, viene da alcuni considerato un eroe popolare, parte di quella schiera di popolani che si ribellarono ai soprusi e alle repressioni.

Figlio di Domenico Summa e Anna Coviello, Ninco Nanco (il cui soprannome apparteneva alla famiglia paterna), nacque in un ambiente familiare disagiato e con diversi problemi con la legge. Suo zio materno, il bandito Giuseppe Nicola Coviello, morì bruciato in una capanna di paglia ove si era nascosto per sfuggire alla polizia (dopo la sua morte, venne ricordato con il nomignolo di Cola Arso). Uno zio paterno, di nome Francescantonio, scontò dieci anni di reclusione per aver picchiato un gendarme borbonico e, uscito di galera, scappò in Puglia dopo aver ucciso a pugnalate un uomo per una questione di gioco, lavorando come garzone alle dipendenze di un possidente di Cerignola ma si diede ben presto alla macchia.

Suo padre, benché un onesto contadino, aveva problemi di alcolismo; una zia e una delle sue sorelle erano dedite alla prostituzione. Ancora ragazzino, Giuseppe iniziò a lavorare come domestico presso un notabile, Giuseppe Gagliardi, e più tardi come guardiano di vigne. All’età di 18 anni, sposò una ragazza chiamata Caterina Ferrara, orfana di entrambi i genitori, dalla quale non ebbe figli. Il matrimonio durò 2 anni. In età giovanile, fu spesso protagonista di liti furiose, in una delle quali ricevette un colpo di ascia alla testa che non gli fu fatale. Un giorno, venne pestato e pugnalato ad una gamba da quattro o cinque persone che lo costrinsero a tre mesi di guarigione. Giuseppe, anziché denunciare l’accaduto alla polizia, preferì la vendetta personale. Qualche mese dopo, uccise uno dei suoi aggressori a colpi di ascia.

L’omicidio gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma riuscì ad evadere nell’agosto 1860. Recatosi a Napoli, tentò di arruolarsi nell’esercito di Giuseppe Garibaldi per poter ricevere la grazia ma fu scartato. Tentò la stessa cosa sia presentandosi a Salerno da Nicola Mancusi, comandante della colonna insurrezionale di Avigliano, e sia facendo domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale ma entrambi gli esiti furono negativi. Costretto al brigantaggio, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei boschi del Vulture.

« Il governo italiano ci manda contro la forza a perseguitarci; ebbene, facciamogli vedere fin da oggi che noi non abbiamo intenzione di prestargli obbedienza. »

Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco, del quale divenne uno dei più fidati subalterni. Il brigante aviglianese, assieme a Crocco, partecipò a numerosi saccheggi, conquistando prima tutto il Vulture, senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano, poi gran parte della Basilicata, spingendosi fino all’avellinese e il foggiano. Si distinse soprattutto nella battaglia di Acinello, comandando la cavalleria dei briganti e dimostrando la sua padronanza in campo bellico. Non esitava ad aggredire le famiglie borghesi, ricorrendo al sequestro, all’omicidio e alla devastazione delle proprietà in caso di mancato sostegno.

Ninco Nanco era conosciuto, a quel tempo, anche per la sua impassibilità nel compiere atti ferini. La sua compagna, Maria Lucia Di Nella (nota come Maria ‘a Pastora), brigantessa di Pisticci, era sempre accanto a lui durante gli assalti e le imboscate. Secondo i racconti popolari della zona, quando Ninco Nanco strappava il cuore dal petto dei bersaglieri catturati, Maria gli porgeva sempre il coltello. Il ricordo di queste azioni cruente era ancora vivo tra gli abitanti della Basilicata nel 1935, quando Carlo Levi vi fuconfinato durante il regime fascista; l’intellettuale incontrò persone che affermavano di esserne state testimoni al tempo e riportò gli aneddoti nella sua opera Cristo si e’ fermato ad Eboli. Tuttavia, Crocco negò torture e scempi da parte del brigante aviglianese ai danni dei militari prigionieri, asserendo che era «terribile solo per la propria defesa».

Nel gennaio 1863, Ninco Nanco e alcuni membri della sua banda uccisero brutalmente il delegato Costantino Pulusella, il capitano Luigi Capoduro di Nizza e alcuni suoi soldati, dopo che Capoduro, sperando di indurre il brigante alla resa, si era avviato con i suoi uomini nel bosco di Lagopesole. I loro cadaveri furono scoperti alcuni giorni dopo: Pulusella venne ritrovato con le mani recise, Capoduro decapitato con la testa messa a distanza su un macigno e con un sasso fra i denti, e sul petto aveva incisa la croce di casa Savoia. Il 12 marzo 1863 nei dintorni di Melfi, si rese protagonista di un feroce massacro ai danni di un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Giacomo Bianchi. Alla carneficina parteciparono anche le bande di Crocco, Caruso, Giovanni “Coppa” Fortunato, Caporal Teodoro, Marciano, Sacchetiello e Malacarne. Solamente due soldati piemontesi sopravvissero, mentre il capitano Bianchi venne ucciso da Coppa con una pugnalata alla nuca e la sua testa fu troncata dal busto. La falcidia avvenne in risposta alla morte di alcuni briganti avvenuta nei pressi di Rapolla, i quali vennero catturati, uccisi e i loro cadaveri bruciati dai regi soldati.

Accanto alla sua ferocia, Ninco Nanco si rese protagonista anche di atti generosi. Aiutava economicamente le sue sorelle, le quali versavano in condizioni misere ed, essendo profondamente religioso, mandava soldi ai preti affinché celebrassero messe in onore della Madonna del Carmine, la cui effigie portava sempre con sé al collo. Durante l’assedio di Salandra, risparmiò un sacerdote che, in passato, aveva aiutato la sua famiglia e gli garantì la sua protezione. Ninco Nanco depositò alcuni oggetti di valore nella cappella delMonte Carmine, che furono sequestrati e venduti per ordine della commissione antibrigantaggio nel 1863; con il ricavato vennero effettuati lavori di ristrutturazione dell’edificio.

Una volta, fermò un mercante di panni di Potenza confiscandogli una manciata di ducati ma, subito dopo, gli restituì la somma. L’antropologo di scuola lombrosiana Quirino Bianchi, autore di una biografia su Ninco Nanco, nonostante lo considerasse un «brigante tanto feroce e di indole perversa», appartenente ad una «famiglia degenerata», sostenne che, avendo pietà della miseria, intimò il capobrigante Giuseppe Pace, detto Castellanese, a smettere di minacciare di morte i poveri, i quali non avevano la possibilità di sostenere le bande.

L’attività di Ninco Nanco iniziò a perdere colpi l’8 febbraio 1864, quando la sua banda fu decimata presso Avigliano e 17 dei suoi uomini furono uccisi. Il 15 febbraio dello stesso anno, venne emessa una taglia di 15.000 lire sul brigante. Circa un mese dopo, il 13 marzo, Ninco Nanco e 2 dei suoi fedeli (uno di questi era suo fratello Francescantonio) furono braccati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano. Vennero giustiziati subito presso Frusci (frazione di Avigliano) e Ninco Nanco morì per mano del caporale della G.N., Nicola Coviello, con due colpi di cui uno dritto nella gola, per vendicarsi dell’assassinio del cognato compiuto dal brigante aviglianese il 27 giugno 1863.

Tuttavia, altre ipotesi ritengono che il brigante venne ucciso per ordine del comandante della G.N. aviglianese, Don Benedetto Corbo, appartenente ad una delle maggiori famiglie gentilizie della zona, per evitare che venissero alla luce sue presunte connivenze con le bande. Due mesi dopo, lo stesso Corbo fu coinvolto in un’altra vicenda di complicità con i briganti e venne accusato dal generale Baligno, comandante delle truppe di Basilicata, di aver rilasciato senza permesso alcuni briganti appartenenti alla banda Ninco Nanco.

Crocco raccontò nelle sue memorie che, venuto a conoscenza della morte del suo luogotenente, decise di vendicarlo e, trovandosi nelle vicinanze del posto in cui avvenne l’assassinio, preparò la punizione da infliggere ai suoi esecutori ma, vedendo l’arrivo di un reggimento di soldati, dovette abbandonare il piano.[10] La salma di Ninco Nanco fu trasportata, il giorno dopo, ad Avigliano e fu appesa all’Arco della Piazza come monito[11]. Il giorno seguente, il suo corpo fu portato a Potenza, ove venne seppellito. Deceduto il brigante, i suoi uomini confluirono nella banda di Gerardo De Felice detto “Ingiongiolo”, brigante di Oppido Lucano.

  • Dopo la sua morte, vennero composte diverse liriche da parte di autori locali che celebrarono la sua condanna, attribuendogli giudizi sprezzanti. Anche il poeta Michele De Carlo, a quel tempo sindaco di Avigliano, compose un acrostico sul brigante, sebbene con toni più moderati. Le lettere iniziali di ogni verso formano la frase “ECCO NINCO NANCO”.
  • Nei paesi della Basilicata circolò, invece, per molti anni un canto popolare che lo ricordava con affetto, il cui ritornello suona così:
« Ninghe Nanghe, peccé sì muerte?
Pane e vino nan t’è mancate
La ‘nzalate sté all’uerte
Ninghe Nanghe, peccé sì muerte? » 

venerdì 7 settembre 2012

“Unirsi ai napoletani è come unirsi ai lebbrosi” (Massimo D'Azeglio)



Antonio Gramsci: “L’unità d’Italia non è avvenuta su basi di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno, nel rapporto territoriale città-campagna. Cioè, il Nord concretamente era una “piovra” che si è arricchita a spese del SUD e il suo incremento economico-industriale è stato in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale. L’Italia settentrionale ha soggiogato l’Italia meridionale e le isole, riducendole a colonie di sfruttamento”.

Gaetano Salvemini: “L’unità d’Italia è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni per un risveglio economico sano e profittevole. L’unità ci ha perduti. E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all’opinione di tutti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziamenti nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali”.

F.sco Saverio Nitti: “Già nei primi quarantacinque anni di vita unitaria il Mezzogiorno aveva funzionato come colonia di consumo e aveva permesso lo sviluppo della grande industria del Nord”.

F.sco Saverio Nitti. 1903: "Il Regno delle Due Sicilie avea due volte più monete di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme."

F.sco Saverio Nitti, nel suo libro “Nord e Sud”, calcolava che lo Stato, nel ‘900, spendeva 71,15 lire annue per ogni abitante della Liguria e solo 19,88 lire annue per ogni abitante della Sicilia.

Nel 1861 la Sicilia, a fronte di una bilancia commerciale attiva quattro volte superiore a quella del Piemonte, concorreva al debito pubblico unificato con appena 6.800.000 lire, su un totale di 111.000.000 e contro i 62.000.000 del regno Sabaudo.

La ricchezza immobiliare siciliana superava, fino al 1890, quella industriale del Nord, ottenendo l’unico risultato di attirare su di sé un’ingente massa di tributi, che si risolvevano inevitabilmente nel potenziamento dell’economia industriale settentrionale. Per questo motivo il Colajanni affermava che le tariffe del 1887 avevano consentito la creazione dell’industria italiana, a danno interamente dell’agricoltura del Meridione e delle Isole.

La vendita dei beni ecclesiastici incamerati e del demanio “antico”, unitamente a tutte le rendite dei beni ecclesiastici censiti, fruttava allo Stato, nel corso di qualche decennio, l’incredibile somma di quasi 800 milioni di lire (più di centomila miliardi di lire attuali).

Aristide Buffa in “Tre Italie”, ESA editrice, 1961: “I danni esercitati dalla vendita dei beni ecclesiastici … furono incommensurabili e hanno i loro effetti fino ad oggi...”; i soldi ricavati, “...se spesi nell’Isola, l’avrebbero trasformata in uno dei paesi più progrediti del tempo...ma allora urgeva la costruzione delle ferrovie nel Piemonte e nell’Alta Italia, per cui, praticamente, al dissanguamento della Sicilia corrispose la creazione, a nord del Po, dell’ambiente adatto per l’impianto delle nuove industrie...”

Luigi Einaudi: "Sì, è vero, noi settentrionali abbiamo contribuito qualcosa di meno ed abbiamo profittato qualcosa di più delle spese fatte dallo Stato italiano, peccammo di egoismo quando il settentrione riuscì a cingere di una forte barriera doganale il territorio ed ad assicurare così alle proprie industrie il monopolio del mercato meridionale".

Ma le masse popolari delle Due Sicilie, da Ferdinando IV in qua, tutte le volte che han dovuto scegliere tra la monarchia napoletana e la straniera, tra il re ed i liberali, sono stati sempre per il re: il '90, il '20, il '48, il '60, le classi popolari, anche mal guidate o fatte servire a scopi nefandi, sono state per la monarchia e per il re.

… I Borboni temevano le classi medie e le avversavano; ma tenevano anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro concezione gretta e quasi patriarcale non si preoccupavano se non di contentare il popolo, senza guardare all'avvenire, senza aver vedute, prospettive. Bisogna leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fisco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull'amore delle classi popolari.

II re stesso scriveva agl'intendenti di ascoltare chiunque del popolo: li ammoniva di non fidarsi delle persone più potenti; li incitava a soddisfare con ogni amore i bisogni delle popolazioni. Leggendo quei rapporti, quelle lettere, quelle circolari si è spesso vinti da quel caldo senso di simpatia popolare che traspira da ogni frase.

… La finanza era rigida, la banca onesta. Il Banco di Napoli dal 1818 al 1861, sopra una media annuale di 69 milioni di anticipazioni e di sconti, non perdette che 65.000 lire all'anno, meno della Banca d'Inghilterra, meno della Banca di Francia, meno forse di qualsiasi grande banca al mondo.

… Quale era la situazione dei varii Stati al momento dell'annessione? Quando l'unità si formò, quali erano gli oneri che ciascuno Stato portava? Quali erano i vantaggi?

È fuori di dubbio che a Napoli le imposte erano, data la ricchezza degli abitanti, almeno tre volte inferiori che in Piemonte: di molto inferiori senza dubbio a quelle degli altri Stati della penisola.

Nel 1800, la situazione del Regno delle Due Sicilie, di fronte agli altri Stati della penisola, era la seguente, data la sua ricchezza e il numero dei suoi abitanti.

1° Le imposte erano inferiori a quelle degli altri Stati;

2° I beni demaniali e i beni ecclesiastici rappresentavano una ricchezza enorme e, nel loro insieme, superavano i beni della stessa natura posseduti dagli altri Stati;

3° II debito pubblico, tenuissimo, era quattro volte inferiore a quello del Piemonte e di molto inferiore a quello della Toscana;

4° II numero degli impiegati, calcolando sulla base delle pensioni nel 1860, era di metà che in Toscana e di quasi metà che nel Regno di Sardegna;

5° La quantità di moneta metallica circolante, ritirata più tardi dalla circolazione dello Stato, era in cifra assoluta due volte superiore a quella di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme ».

… Da dieci anni la ricchezza dell'Italia settentrionale è grandemente cresciuta; nel Mezzogiorno vi è invece arresto e in qualche provincia vi sono anzi tutti i sintomi della depressione. La Lombardia, il Piemonte e la Liguria, godendo tutti i benefizi di un regime doganale fatto quasi ad esclusivo loro benefizio, dopo avere goduti i frutti di una politica finanziaria, che per quaranta anni riserbava ad essi i maggiori benefizi e al Sud i maggiori danni, sono in trasformazione profonda; sicché il distacco fra il Nord e il Sud si accentua. E qualunque finzione per negare, non serve a nascondere la verità, che si manifesta in tutte le forme.

… Quando nel 1860 il Regno delle Due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II aveva cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. Le accuse che Antonio Scialoja movea alla finanza borbonica, esaminate ora onestamente, sulla base delle pubblicazioni ufficiali, non resistono alla critica. Ben vero che l'opera di Scialoja fu nobilmente e altamente politica e va considerata tenendo presenti i fatti che la determinarono.

Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione.

È vero che le province erano in uno stato quasi medioevale, senza strade, senza scuole; ma è vero pure che vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora.

Il commissario governativo mandato a Napoli da Cavour, dopo l'annessione, il cavaliere Vittorio Sacchi, riconosceva tutti i meriti della finanza napoletana, e nella sua relazione ufficiale non mancava di additarli.

All'atto della costituzione del nuovo Regno, il Mezzogiorno, come abbiamo già detto, era il paese che portava minori debiti e più grande ricchezza pubblica sotto tutte le forme. Or, poiché si diceva che il Nord fosse meno ricco del Sud e si credeva che molto avesse sacrificato alle lotte della indipendenza e della unità, parve anche assai naturale che i meridionali pagassero il loro contributo. Così i debiti furono fusi incondizionatamente e il 1862 fu unificato il sistema tributario ch'era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che avevano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po.

Non vi fu nessuna malevolenza. Si dicea - e i meridionali diceano - l'Italia del Sud è ricca; e bene perché non dovea pagare i vantaggi dell'unità, essa che vi avea meno contribuito?

La burocrazia meridionale era borbonica; si potea non licenziarla quasi in massa?

Occorreva, in vista di una guerra coll'Austria, e per compiere l'unità, trasformare i paesi che doveano essere il teatro della guerra. Si potea non spendere tutte le risorse nel Nord? Chi può discutere dinanzi al pericolo?

Vi era bisogno di grandi entrate; e si potea sofisticare sul modo?

In Italia noi abbiamo visto che lo Stato prende più che in tutti gli altri grandi paesi di Europa, relativamente alla produzione annuale della nazione.

Ebbene: dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell'Italia settentrionale. Le grandi spese per l'esercito e per la marina; le spese per i lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord.

Per quaranta anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l'ha compiuta ha mutato il regime doganale. E il Mezzogiorno che non ha, soprattutto che non avea nulla da proteggere, ha funzionato dopo il 1887 come una colonia, come un mercato per le industrie del Nord; che poi, raggiunto un certo grado di sviluppo, han potuto esportare e sfidare anche l'aria libera della concorrenza.

Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali. Ho un elenco quasi completo dei grandi appaltatori dello Stato dopo il 1862; non figurano che pochissimi meridionali. Spesso questi ultimi sono stati poco intraprendenti, ma tante volte, quando hanno voluto essere, si sono urtati, soprattutto nei primi anni, contro una burocrazia interamente avversa e diffidente.

Le più grandi fortune dell'Italia settentrionale sono state compiute mediante lavori pubblici o forniture militari; la storia del regime ferroviario da venti anni a questa parte (la conversione delle obbligazioni tirrene è classico esempio) spiega non pochi spostamenti di ricchezza …

… Per la più gran parte dei deputati del Mezzogiorno una croce di cavaliere ha più importanza di un trattato di commercio; anzi importa più che l'indirizzo di tutta la politica finanziaria.

Il Governo, da parte sua, ha avuto interesse a mantenere il Mezzogiorno come un feudo politico, votante per tutti i Ministeri. Come nelle vie di campagna sorge di tratto in tratto qualche croce a ricordare un antico misfatto, nella politica meridionale molte croci spiegano assai misfatti. Soprattutto dopo il 1876 ogni ritegno è svanito.

La Destra fu avversa al Mezzogiorno: o, per dir meglio, essa che non avea alcun grande programma economico, ebbe politica interamente opposta agli interessi meridionali. Era inoltre un partito chiuso, spesso una vera consorteria, con capi eminenti, con gregari insignificanti; e credea politica conveniente creare grossi interessi privati su cui assidere il suo potere.

Ond'è che l'Italia meridionale fu il campo delle agitazioni di Sinistra. La Sinistra meridionale, di cui non sarà mai detto male a bastanza, non fu un partito, fu l'insieme di tutti gli appetiti, lo sfogo di tutti i malcontenti: fu la negazione di ciò ch'era stata la Destra. Si personificò spesso in uomini privi di ogni morale, che confondevano interesse pubblico e privato e il primo sottomettevano quasi sempre al secondo. Ebbe nella politica qualche volta azione utile: nella morale pubblica quasi sempre dannosa. Raccoglieva antichi borbonici, liberali nuovi, ma abituati alle abitudini vecchie e desiderosi di prepotere; amanti dei metodi dell'assolutismo peggiore quando erano al governo, predicatori della peggiore anarchia quando erano all'opposizione. Vi erano in essa alcuni capi illustri per il passato; altri il cui passato era stato ingrandito; altri che la parola abbondante rendeva illustri e pericolosi.

Dopo il 1876 soprattutto il Mezzogiorno è stato assai più di prima dato in preda ai peggiori avventurieri. Da ogni Governo, più o meno, si è speculato sulla sua ignoranza, sulla sua povertà, sui suoi dolori. Anche adesso province intere sono sotto la dominazione di avventurieri parlamentari, che vi esercitano il loro potere mantenendolo su organizzazioni locali pessime. Date le vicende del regime rappresentativo, la tentazione di avere una maggioranza solida, di farsi la maggioranza, come si dice in gergo parlamentare, vince più o meno tutti. D'altronde, per male tradizioni, l'Italia meridionale pare che essa stessa invochi e solleciti ciò che più le nuoce.

Così invece di reagire il Sud ha acuito esso medesimo il suo male, determinando spese inutili, chiedendo per ignoranza politica fastosa, che non potea pagare: invece di impedire lo sperpero l'ha secondato, e spesso l'ha voluto. Senza dubbio molti grandi avvocati l'Italia meridionale ha dati; molti che sono arricchiti. Molti arricchiscono tuttavia, facendo servire il potere politico a corrompere e a inquinare la giustizia. Ma ciò è più grande ragione di tristezza … La pochezza dei rappresentanti del Mezzogiorno e la confusione delle idee è stata tale che, per tanti anni, si è detto e si è pubblicato nella Camera e fuori che il Mezzogiorno pagava poco e viceversa otteneva il maggiore benefizio delle spese dello Stato! In altri termini si è aggiunta la ironia crudele al danno; ironia dei fatti, se non delle intenzioni.

Ora dalle mie indagini risulta che, proporzionalmente alla sua ricchezza, il Sud paga per imposte di ogni natura assai più del Nord; e viceversa lo Stato spende molto meno. La rendita pubblica a sua volta si è andata a concentrare dove maggiore è il numero dei grandi servizi di Stato e maggiore il numero delle spese. L'ordinamento del nostro sistema tributario è tale che una provincia povera come Potenza paga più di Udine; e Salerno paga più di Corno, mirabile per industrie e per traffici!

Le grandi spese sono concentrate nel Nord: alcune per necessità, altre senza. Le spese navali si fanno quasi interamente in Liguria. Nel Nord d'Italia vi sono 10 soldati per ogni 1000 abitanti e nell'Italia meridionale meno di 4.

Gli istituti di istruzione, di giustizia, di educazione industriale sono concentrati tutti allo stesso modo, sicché il Mezzogiorno, appare qualche volta una landa delle istituzioni, ove il Governo è più assenteista dei proprietari. In questa landa la civiltà non è rappresentata spesso che dai carabinieri; e il Governo non appare che sotto le forme della prepotenza e della violenza, costretto, per conservare i suoi feudi politici, a consegnare ogni provincia, ogni zona nelle mani dei peggiori avventurieri parlamentari. Si credeva che le grandi spese per lavori pubblici fossero state nel Mezzogiorno e ho dimostrato che non è vero; si credeva che i meridionali avessero invaso gli impieghi e ho trovato che tra gli impiegati il minor numero era di meridionali. Tanto han potuto la nostra poca educazione politica e il folle pregiudizio della nostra ricchezza!

Ma, si dice, l'Italia meridionale ha grandi risorse che non mette a frutto. A Milano, che è la città meno unitaria, avendo ricavato i maggiori benefizi dalla unità, si ritiene che i baroni meridionali, in una economia quasi feudale, nascondano le loro ricchezze.

Quali ricchezze? e che cosa non si mette a frutto? La più grande quantità di rendita pubblica si trova (se si tolga il Lazio) in Liguria, in Lombardia, in Piemonte; assai poca è la massa di rendita che si trova nel Mezzogiorno ed è stata comperata alle condizioni più svantaggiose. Un abitante della Liguria ha 15 volte più rendita pubblica di un abitante della Calabria; e un abitante del Piemonte ne ha 7 volte più di un abitante di Basilicata.

E dove sono le ricchezze che rimangono inoperose? Il risparmio è così esiguo sotto tutte le forme, che quasi non pare che possa ridursi a così poco.

Nel 1896 mentre l'Italia settentrionale avea nelle casse di risparmio ordinarie quasi 800 milioni; 140 nelle società cooperative di credito; 35 nelle società ordinarie di credito; 244 nelle casse postali di risparmio e avea inoltre banche poderose e istituzioni commerciali di ogni nome; nell'Italia meridionale, dove si vive una vita assai grama, non vi erano che pochi risparmi.

L'Italia continentale del Sud, che rappresenta il 23% della popolazione italiana, mentre la Lombardia rappresenta appena il 13%, non avea nello stesso anno e sotto tutte le forme che poco oltre 160 milioni di risparmio; mentre la Lombardia ha nelle sole casse di risparmio ordinarie assai più che mezzo miliardo. Per ignoranza delle cose, per fatua e dannosa tradizione, i meridionali stessi ripetono che il Mezzogiorno ha grandi ricchezze inoperose. Dove? Sotto quale forma?

Senza dubbio i pochi ricchi del Mezzogiorno meritano tutto il biasimo per le loro abitudini di Spagna; per essersi trasformati in semplici percettori di interessi e di rendite; hanno grande responsabilità per essere impari al loro compito; ma se questo fatto è assai riprovevole nelle province meridionali ed è più grave che altrove, è forse esclusivo di esse?

La politica finanziaria dello Stato ha trasportato una massa ingente di ricchezza, qualche miliardo forse, dal Sud al Nord. La politica doganale, soprattutto dopo il 1887, ha acuito il contrasto d'interessi. Per molti anni due terzi degli italiani hanno lavorato a beneficio della Liguria, del Piemonte e soprattutto della Lombardia. Così la differenza fra il Nord e il Sud si è acuita: l'Italia settentrionale e l'Italia meridionale sono ora a una distanza maggiore che nel 1860.

La mortalità elevata, quando assume carattere permanente, è indice di disagio e di povertà. Ora la mortalità in Italia diminuisce; ma diminuisce in assai diversa misura. Nel periodo 1865-1869 era nell'Italia settentrionale di 29,06 per 1000 abitanti, nella meridionale di 31,86: la differenza non era grande. Nel 1898 è stata nell'Italia settentrionale di 21,24 e nella meridionale di 25,07. Se la mortalità diminuisce da per tutto, diminuisce disegualmente.

Sono in Italia gli Abruzzi e la Puglia dove si muore di più: e sono la Liguria e il Piemonte dove si muore di meno. Così per la delinquenza e per la istruzione: se vi è miglioramento in tutta la penisola, ancora più si è acuito il dissidio fra il Nord e il Sud, indice di situazioni differenti.

Le poche statistiche sui consumi che noi possediamo ci mettono in grado di affermare che mentre lo sviluppo di essi è notevole nel Settentrione, in molte zone del Mezzogiorno vi è tendenza alla diminuzione. Caratteristico il fatto della città di Napoli, dove le cifre dei dazi indicano una situazione orribile e quasi tormentosa. Così le imposte, avendo raggiunto un alto grado di pressione, si esigono nel Sud con difficoltà: e, per il regime tributario italiano, ricadono con maggiori gravezze sui contribuenti meridionali.

La media degli aggi delle esattorie che è di 0,91 in Lombardia, di 0,99 in Piemonte, di 1,09 in Liguria, raggiunge 2,39 in Abruzzo, 3,37 in Calabria, 4,02 in Basilicata. Masse enormi d'immobili sono espropriate ogni giorno nel Sud. E siamo giunti al punto che la Calabria ha più espropriati dell'Italia centrale e dell'Italia settentrionale unite assieme; anzi, che la Basilicata ha da sola un numero di espropriati che è di tre volte superiore a quello dell'Italia settentrionale, mentre rappresenta un ventunesimo di quella popolazione.

Qualcuno ha detto che vi è nel Mezzogiorno l'abitudine di farsi espropriare. È uno spirito un po' macabro: e, come ho detto in Nord e Sud, non è molto dissimile dal consiglio che è in alcuni vecchi libri di cucina piemontese: il coniglio ama di essere scorticato vivo.

La città di Napoli, la quale nel secolo XVI era la seconda città di Europa per numero di abitanti e veniva subito dopo Parigi, ora non è più tra i centri maggiori. In questa diminuzione relativa è un fatto di ordine generale, il quale si riattacca alle mutate condizioni della produzione e del traffico. Ma gli ordinamenti economici e finanziari del Regno d'Italia hanno accentuato questo fatto.

Nel 1862 la città di Napoli aveva quasi il doppio della popolazione di Milano e ora la supera di 89 mila, avea quasi quattro volte la popolazione di Genova e ora ha poco più del doppio; avea più del doppio della popolazione di Torino e ora la supera di un terzo. E ciò senza parlare di Roma, che ha avuto sviluppo enorme. Fra qualche decennio Napoli non sarà né meno la più popolosa città italiana.

È vero che i centri minori del Mezzogiorno si sono assai sviluppati e che la vita delle province è di molto aumentata…

… Perduta la capitale, Napoli avrebbe dovuto trasformarsi in grande città industriale. Un popolo di 600 mila abitanti non è mai vissuto e non può vivere sulle spese dei forestieri: i quali, del resto, per le mutate condizioni, non vengono più a svernare se non in piccolo numero e per breve tempo. Ma mancava l'educazione... e mancò la possibilità.

Le vendite tumultuose dei beni demaniali, l'aggravamento delle imposte, le grosse emissioni di rendita, la perdita del grosso mercato di consumo, determinarono uno stato di depressione, che si andò sempre più aggravando.

D'altronde, poiché il paese non avea educazione politica, fu dato in preda a tutte le clientele più infami, da governi che non voleano assicurarsi se non delle maggioranze. E questo stato di cose ha impedito ogni sviluppo di vita industriale.

Or sono oltre trenta anni che la città di Napoli presenta tutti i sintomi della decadenza: non sorgono nuclei industriali, i traffci rimangon quasi stazionari, la vita locale diventa più difficile.

Migliorate in qualche modo le condizioni sanitarie, l'acqua limpida e abbondante ha fatto diminuire grandemente il numero delle malattie infettive: ma è cresciuta la mortalità derivante da poca e poco sana alimentazione. La morbilità e la mortalità per esaurimento aumentano: sintomo di uno stato di cose rattristantissimo.

La situazione di Napoli si presenta anzi spaventosa. La tubercolosi è in aumento rapido e continuo; le enteriti frequentissime, indice di nutrizione povera e malsana, sono, caso unico in Italia, raddoppiate solo a Napoli negli ultimi anni; tutti i sintomi della povertà economica coincidono con la decadenza fisica della popolazione.

Vi sono piccole città nell'Italia del Nord, che hanno una potenza industriale superiore a Napoli: certo tutta la provincia di Napoli, che contiene così immane popolo, ha meno forza motrice nella industria della piccola provincia di Corno. Massa enorme di uomini peggiora ogni giorno le sue condizioni di esistenza: e Napoli, caso unico nel mondo civile, presenta questo spettacolo: da dieci anni a questa parte, mentre la sua popolazione aumenta, diminuisce la quantità degli alimenti ch'essa consuma. Come nella parabola del dott. Sophus, che constatava che, quando le città litoranee aumentano, i pesci vanno via.

Tutte queste cose invece di determinare nel Mezzogiorno una reazione violenta, hanno determinato solo uno stato di inerte e pericoloso malcontento. L'italia meridionale non è conservatrice, né liberale; è apolitica. E come accade nei paesi apolitici, è turbata spesso da scosse brusche: sicché costituisce un pericolo rivoluzionario. Nessun paese d'Italia ha più mutato e più subitamente mutato dinastie di questo paese, che pure dette all'Italia il più antico e più grande reame.

Ma ora, diffondendo l'idea, ch'esso sia e rimanga una specie di baluardo delle istituzioni, si viene a creare un equivoco permanente e a perpetuare una delle maggiori cause di danno. Un ministro meridionale ha detto che i sindaci del Mezzogiorno sono tutti fedeli cavalieri della Monarchia: cavalieri e commendatori sono senza dubbio quasi tutti; ma si può dire ch'essi non rappresentino nessuna tendenza politica.

L'unità non vuole dire uniformità; il paese più unitario di Europa, la Francia, ha ordinamenti amministrativi speciali per Parigi e per Lione, e quasi dovunque le grandi città hanno regimi differenti. Ma anche la unità diventa pretesto di male. Così ora s'impedisce, sotto pretesto unitario, che Napoli abbia ordinamento amministrativo speciale e conforme ai suoi bisogni, e si vuole mantenere a ogni costo un sistema i cui risultati dolorosi non potrebbero essere più evidenti.

La trasformazione rapida dell'Italia del Nord non è suo merito: è conseguenza di condizioni storiche e geografiche evidentissime.

E così anche la depressione del Sud non risponde ad alcuna necessità etnica: ma solo a condizioni che possono mutare e che noi crediamo dovranno mutare. Il processo di trasformazione dell'Italia del Nord è evidente.

In un primo tempo, formata la unità, essa ha dato, per ragioni politiche, i soldati, gl'impiegati, i costruttori: vi era maggiore cultura e vi era la pratica del governo rappresentativo.L'Italia del Nord ha profittato quasi esclusivamente di tutta la politica dello Stato: Liguria, Lombardia, Piemonte, soprattutto sono state le tre zone dove tutto è andato ad affluire. Per trenta anni tutte le spese dello Stato vi si sono quasi concentrate; così si sono formati i primi grandi nuclei di capitali, che hanno formazione storica e politica, piuttosto che industriale. Quando i capitali si sono concentrati, l'Italia del Nord, a cominciare dal 1872, poiché aveva il Governo e si trovava di fronte a regioni che non volevano nulla, ha orientato la politica doganale in tal modo che la sua trasformazione industriale è stata possibile: ed essa si è trovata ad avere una grande colonia di quasi 20 milioni di uomini, l'Italia del Centro, del Sud, le isole, che sono state un mercato sicuro e per necessità doganale fedele. Le tariffe del 1887 hanno accentuato questo fatto.

D'altra parte, la condizione geografica dell'Italia del Nord, l'avere il confine di un paese di 30 milioni di uomini, ha reso rapida la trasformazione, che è avvenuta, meno per merito dei nostri industriali, che per l'azione esercitata dalle popolazioni e dai capitali dell'Europa centrale. Le prime grandi industrie che sono sorte nel Nord sono state fatte nella più gran parte da francesi, da tedeschi, da svizzeri: il libro d'oro dell'industria e del commercio di Lombardia abbonda di suoni gutturali e di desinenze aspre.

E, d'altra parte, anche la mano d'opera si è perfezionata sotto l'influenza esterna del confine.

Tutta l'emigrazione dell'Italia del Sud è temporanea e si dirige, in generale, oltre l'oceano: sono diecine di migliaia di contadini che vanno a vendere la forza di lavoro, e che in genere non tornano.

L'Italia settentrionale - rassomigliabile in questo soltanto al Belgio, situato anch'esso tra grandi centri di produzione - ha una forma speciale di emigrazione temporanea: sono lavoratori che vanno ogni anno all'estero per due o tre mesi o più a trovar lavoro, e che dopo tornano in patria. Or bene sono questi operai che sono stati le sentinelle avanzate della grande industria.

Tra Milano e la Svizzera i treni impiegano minor tempo che tra Napoli e Salerno; ora l'azione esterna è stata ed è grandissima.

E però quando quest'azione si è svolta in un paese che per almeno trent'anni ha assorbito quasi tutte le spese di un grosso Stato di trenta milioni di uomini, ha trovato il terreno pronto per la trasformazione industriale; ha trovato i capitali. Il regime doganale ha fatto il resto. Ora, invece, l'Italia meridionale è rimasta medioevale in molte province, non per sua colpa, ma perché tutto l'indirizzo della politica interna, economica e doganale, ha determinato questo fatto. Tra l'Italia del Nord e l'Italia del Sud è ora più grande differenza che nel 1860; e, mentre la prima si avvicina ai grandi paesi dell'Europa centrale, per la sua produzione e per le sue forme di vita pubblica, la seconda ne rimane sempre lontana, e, per la produzione sua, rimane anzi assai più vicina all'Africa del Nord.

Questa è la verità che nulla può mutare nel suo artificio: una verità che nessuno sforzo di logica può attenuare …

Motore propulsivo della riforma fiscale in senso federalista è la convinzione che cospicui finanziamenti siano transitati, dal Nord produttivo, al Sud sprecone. Transito che non produce nessun beneficio al Nord, ma che fa sentire alla parte produttiva del Paese il peso maggiore delle imposte. Se questa tesi può riscuotere il favore degli elettori in campagna elettorale, probabilmente non regge all’analisi di dati reali. La pubblicazione del 1997 di Gennaro Zona “Come ti finanzio il Nord” può essere utile a chiarire i numeri dell’intervento straordinario per il Meridione d’Italia e l’utilizzo della Cassa del Mezzogiorno, prima, e dell’AgenSud, poi, a tutto beneficio delle industrie del Nord. Nella ricerca si evidenzia come «non sia mai esistito alcun trasferimento diretto di fondi dal Nord al Sud, ma politiche di redistribuzione della ricchezza nazionale». Politiche che però sono state influenzate da «poteri forti» della nazione che hanno avvantaggiato il Nord grazie alla sua «maggiore capacità rispetto al Sud di incidere sulle politiche di sviluppo del Paese». Nello studio è stato evidenziato come «da un lato si destinano fondi alla ricerca per il Sud, con quote prefissate, ed alle piccole e medie imprese e dall’altro si opera di fatto in modo che i benefici ricadano sempre sui soliti grandi gruppi del Nord o pubblici». Quando si è passati al sostegno dei redditi delle popolazioni meridionali si è «ridotto il divario Nord-Sud nel livello dei consumi, mentre è aumentato quello nella capacità produttiva: aumentati i redditi sono cresciuti i consumi, ma la produttività è rimasta la metà di quella del Nord, contemporaneamente è aumentato a dismisura il flusso delle importazioni dalle regioni del Nord».Ciò ha significato lo sviluppo del prodotto interno lordo e il raggiungimento di livelli di quasi piena occupazione nelle regioni settentrionali. La riforma federalista dovrebbe quindi avere come obbiettivo, non solo a parole ma anche nell’ambiente culturale di chi la promuove, il miglioramento complessivo del sistema economico del Paese e non l’esclusiva«esigenza di salvaguardare le proprie ricchezze», con strumenti che potrebbero non ottenere i risultati sperati perchè frutto di una visione distorta e pregiudiziale delle politiche di sostegno del Mezzogiorno. 19 Dic. 2008 di Giovanni Nocera

Leggendo gli scritti di Francesco Saverio Nitti del 1900, in cui fa una lucida analisi della politica colonialista dello Stato italiano nei territori del conquistato Regno delle Due Sicilie si rimane sconcertati. Li si può leggeri come una analisi che descriva le attuali condizioni socio economiche del Meridione e delle politiche economiche dell’attuale Stato italiano. NULLA E’ CAMBIATO, anzi peggiorato se consideriamo i 150 anni trascorsi, che hanno radicalizzato uno stato sociale di miseria, emarginazione, di malavita e sottosviluppo, degno di un dominio anziché di una colonia. I programmi straordinari per lo sviluppo dell’Italia hanno perseguito sempre la stessa logica di privilegiare le aree settentrionali al Meridione. Il piano Marshall vide giungere in Italia una massa enorme di denaro e di aiuti umanitari, ma solo il 7% di essi giunsero nei territori del Regno delle Due Sicilie, La Cassa per il Mezzogiorno, che tanto è servito ai denigratori del Sud, è servita ad arricchire le imprese settentrionali ed il potere politico centralista, che acquisivano tutte le gare d’appalto per la realizzazione delle infrastrutture al Sud o per impiantarvi industrie, le cattedrali nel deserto, che fallivano subito dopo o non avviavano per nulla la produzione. La Cassa istituita come operazione di sviluppo straordinaria per il Sud ha prodotto opere pari ad 1/3 di quanto è stato realizzato nelle regioni del centro nord con gli stanziamenti ordinari. Il Sud, il Regno, dopo essere stato spoliato e saccheggiato di tutte le sue ricchezze durante la conquista dal 1860 in poi, ha subito il più feroce stupro, trasformare le sue popolazioni in “parco buoi” da sfruttare, come consumatori, come elettori, come mano d’opera a basso costo, come finanziatori diretti della parte nord dell’Italia.

20 milioni di Meridionali, che forniscono oltre il 70% dei militari a servizio dell’invasore italiano;

20 milioni di Meridionali, che devono acquistare prodotti delle industrie settentrionali ed estere, che rappresentano l’80% dei beni venduti al Sud;

20 milioni di Meridionali, che devono votare i partiti nazionalisti, finanziati e controllati dai grandi poteri finanziari settentrionali, che non hanno alcun interesse per vere politiche di sviluppo al Sud.

20 milioni di Meridionali da cui attingere da sempre manodopera a basso costo e remissiva, che negli ultimi anni si è trasformata in manodopera qualificatissima, impoverendo ulteriormente il Sud di preziose risorse umane;

20 milioni di risparmiatori che depositano i risparmi in banche del nord, che finanziano prestiti e mutui al nord. Tali banche hanno acquisito, quasi gratis, le più importanti banche del Sud, il Banco di Napoli e di Sicilia, un tempo prima della conquista del Regno rappresentavano il più alto esempio di ricchezza e capacità gestionale al mondo;

20 milioni di Meridionali, clienti obbligati delle compagnie di assicurazioni settentrionali.

Le risorse FAS inizialmente stanziate dalla finanziaria 2007 per il periodo di programmazione 2007-2013 ammontavano a 64,4 miliardi, poi drasticamente ridotte fino agli attuali 53,7 miliardi di cui solo 21,8 al Sud, peraltro ancora bloccati, nonostante la Comunità europea abbia posto il vincolo di destinare l'85% dei fondi FAS proprio al Mezzogiorno. Tali risorse che servivano, per recuperare il divario tra le aree ricche e quelle povere della Ue, devono essere spese entro il 2013, e rappresentano per il Sud l’ultimo treno poichè dal 2013 l’Europa ridurrà i finanziamenti, per dedicarsi al sostegno dei nuovi membri dell’Est europeo. Dal 2008 ad oggi il governo italiano ha saccheggiato i fondi FAS a copertura degli oneri di numerose disposizioni legislative. I fondi destinati alle aree sottosviluppate d’Italia, il Meridione, sono stati destinati per finanziare le opere per la realizzazione dell’expo 2015 di Milano, per rinnovare la flotta di traghetti dei maggiori laghi lombardi, per finanziare la crisi del consorzio del parmigiano reggiano, per pagare le multe agli allevatori settentrionali per lo sforamento delle quote latte, per coprire il disavanzo sorto dall’abolizione dell’ICI sulla prima casa, per la ricostruzione dei danni del terremoto in Abruzzo, per ridurre il debito pubblico, per gli ammortizzatori sociali (dei 4 miliardi, 3 vanno alle Regioni del Nord, dove è maggiore la quantità di ore di cassa integrazione in seguito alla recessione), per il G8 (mai realizzato, e che è costato da solo oltre 300 milioni di euro), per il termovalorizzatore di Acerra, per il credito alle piccole imprese, per la riqualificazione energetica degli immobili, per l’emergenza rifiuti di Napoli, per ripianare i buchi di bilancio di Roma e Catania, per veicoli per il soccorso civile, per l’edilizia carceraria, per finanziare il Servizio sanitario nazionale, per l’Alitalia, per l’aeroporto Dal Molin (dove gli americani intendono costruire una nuova base militare), per la privatizzazione delle Tirrenia, per risanare le Ferrovie dello Stato (che contemporaneamente hanno disposto la soppressione di dodici treni a lunga percorrenza dalla Calabria verso Milano e Torino). Persino per gli sconti su benzina e gasolio concessi agli automobilisti di Valle d'Aosta, Piemonte, Lombardia e Trentino Alto Adige.

I FAS sono stati, invece, negati alle regioni meridionali per il ripianamento del disavanzo sanitario, obbligando le amministrazioni regionali ad imporre maggiori carichi fiscali ad una popolazione già provata economicamente e che vive in uno stato di grave miseria.

Poco importa se i dati sulla recessione dimostrano che la crisi colpisce più duramente il Sud del Nord. Anche i fondi regionali vengono intaccati. i tagli del governo alla scuola, hanno costretto le Regioni a intervenire, con una nuova forma di welfare destinato ai docenti, i cosiddetti Contratti di solidarietà. Solo la Campania ha impiegato per i propri docenti disoccupati ben 20 milioni di euro. Pagati con fondi strutturali. Ma che vi fosse un grossa sperequazione nella distribuzione della spesa pubblica tra Nord e Sud è noto da 150 anni, tanto che già nei primi anni di unità lo Stato spendeva mediamente 50 lire per ogni cittadino del Nord e 15 per quello del Sud. Si calcola che l’ingiustizia fiscale sia costata al Sud 100 milioni/anno: nel 1901 il Mezzogiorno produceva un reddito pari al 22-23 % di quello complessivo italiano, ma pagava imposte sul reddito pari al 35-37% di tutte le imposte sul reddito percepito in Italia. Successivamente le cose non sono cambiate, così, nel primo decennio del secolo ventesimo, una provincia depressa come quella di Potenza pagava più tasse d’Udine e la provincia di Salerno, ormai lontana dalla floridezza dell'epoca borbonica essendo state chiuse cartiere e manifatture, pagava più tasse della ricca Como. L’iniquo sistema fiscale provocò ovviamente una grossa differenza tra nord e sud. La politica fiscale perseguita dallo Stato unitario fu assolutamente ingiusta perchè non omogenea dal Nord al Sud; il primo venne avvantaggiato, il secondo penalizzato.

Il Piemonte, che era anche lo Stato più indebitato d’Europa, si salvò dalla bancarotta unificando il suo debito pubblico con gli abitanti dei territori conquistati. Furono svenduti, a una casta di privilegiati tutti i beni privati dei Borbone, gli stabilimenti pubblici civili e militari delle Due Sicilie. Tutte le spese per la “liberazione” e dei lavori pubblici (affidati alle speculazioni delle imprese lombardo-piemontesi) furono addebitate proprio alle regioni del sud. Fino allora il sud aveva un sistema fiscale razionale ed efficiente, tra i migliori d’Europa, con la politica sabauda, fu applicato un aumento di oltre il 32% delle imposte, mentre gli fu attribuito meno del 24 per cento della ricchezza “italiana”. Per le bonifiche delle aree agrarie tra il 1862 e il 1897, si spesero 267 milioni al Nord, 188 milioni nelle regioni centrali e solo 3 milioni al Sud! Queste bestiali scelte politiche favorivano gli espatri, spesso su pressioni dei paesi esteri (hanno svenduto il bene più prezioso), naturalmente stavano ben attenti di non oltrepassare certe quote oltre un certo limite per non correre il rischio di dover aumentare i salari a causa della scarsa offerta di manodopera. Un mezzo per il controllo sociale. Gli italiani erano in Belgio minatori, in Svizzera camerieri, in Francia contadini, in Germania facchini ecc …

Un ragazzo su tre non ha mai sentito parlare del fenomeno “emigrazione” esterna e interna che nell’ultimo secolo ha sconvolto l’Italia:

-30 milioni di Italiani hanno lasciato la penisola

-5 milioni sradicati dagli ambienti d’origine verso il nord Italia negli anni del secondo dopoguerra.

2/3 dei giovani non sanno nulla o quasi di emigrazione, neanche la SCUOLA approfondisce, meglio non far sapere la Storia negativa dell’Italia, “i giovani hanno bisogno di esempi positivi e che il resto non conta”.

“chi controlla il passato controlla il futuro”, potremmo dire, allora: OSCURIAMOLO, meglio l’ignoranza.

L’emigrazione iniziata nel 1820, subito dopo le guerre napoleoniche. Nel 1830 in America si contavano 439 italiani l’esodo continuò lento fino alla costituzione del Regno d’Italia, quando per le prime repressioni nel Sud (molti “briganti” fuggirono in Egitto facendo decollare il Paese), le sterili (e punitive) politiche d’intervento adottate dallo statuto “Piemontese” (come in Veneto, abbandonato a se stesso) il movimento migratorio dal 1880 fu di circa 100.000 unità l’anno (principalmente proprio dal Nord-Est – l’80%), andò crescendo in proporzioni impressionanti sul resto d’Italia, nel 1913 in 12 mesi emigrarono 872.598 individui. (Tra il 1906-1910 furono complessivamente 3.256.000, e nel periodo 1911-1915 ne partirono altri 2.743.000).

I piemontesi insediatisi al potere si resero protagonisti di: ruberie , assassinii (pulizia etnica), fucilazioni, debiti nei Comuni, nelle Province. Distrussero in poco tempo l’economia del Meridione. Fecero sparire tutto: i macchinari delle fabbriche, i beni religiosi, i beni demaniali, libri antichi e persino le rotaie dei binari ferroviari. Uomini e donne perseguitati abbandonavano città e paesi, accrescendo la ricchezza di popoli stranieri, costruendo dighe, porti, gallerie, grattacieli, palazzi, musei, ferrovie, o trasformando i deserti in terreni fertili. Dopo la I guerra nel 1920 emigrarono 614.611 italiani, e dal 1921 al 1930 il totale fu di 2.577.000. Una intera regione. Nel 1927 gli Italiani all’estero erano già 9.163.367, America; Europa; 188.702; Africa; Australia; Argentina; Brasile; Asia.Una ricchezza per questi paesi, un impoverimento per l’Italia. L’emigrazione riprende Dopo la seconda guerra mondiale. Dal 1946 fino al 1971, ripresa a pieno ritmo in 25 anni 5.737.000. Si calcola che nel corso del secolo il totale dei partiti furono circa 29.000.000, e solo 10.275.000 fecero ritorno in patria. Dopo la II guerra l’industrializzazione di una sola zona del Paese (il triangolo Nord-Ovest) provocarono migrazioni interne, sconvolgendo le regioni italiane. In negativo da dove partivano, ma neppure positivo dove arrivavano (urbanizzazione selvaggia e il non decentramento delle industrie). Dopo il “miracolo economico” nel Nord, i 5 milioni di meridionali emigrando avevano impoverirono i loro paesi d’origine di risorse umane, di manovalanza e professionalità.

Nel 1862 - L'abolizione delle tariffe protezionistiche provoca il crollo dell'economia del Regno di Napoli a favore del Nord. Chiudono gli opifici tessili, l'arsenale di Castellammare, le cartiere, le ferriere, ecc. Le commesse dei lavori pubblici nel Sud vengono affidate a ditte del Nord pagate con i soldi dei "napoletani" ridotti in miseria.

Il 6 giugno 1861, il giornale "Union" di Parigi scrive: "Si sono tolti al palazzo reale di Napoli, specchi, porcellane dell'antica fabbrica di Portici... e perfino delle batterie da cucina. Ma ciò che più è strano, si sono tolti ai due ospedali militari della Trinità e del Santo Sagramento due enormi mortai di bronzo cesellati, opera a quanto pretendesi di Benvenuto Cellini.... Essi sono stati imbarcati per Torino. Infine si è tentato di rubare notte tempo la celebre porta di bronzo cisellata che fa il principale ornamento dell'Arco di Trionfo d'Alfonso d'Aragona nel Castel Nuovo... Il governo per non sollevare il popolo dichiarò che l'avea fatta smontare per ripararla". (G. De Sivo - La Tragicommedia del 19.06.1861)

10 agosto 1863 - Gli operai della fabbrica di Pietrarsa scioperano contro i licenziamenti e l'innalzamento dell'orario di lavoro da 10 a 11 ore. I bersaglieri sparano ed uccidono sette operai.

Nel gennaio 1864 - La fabbrica di Pietrarsa, che dava lavoro a circa 7.000 operai, viene chiusa e le macchine vengono mandate a Genova per rimodernare l'Ansaldo. (L'azienda Ansaldo nacque per interessamento del conte di Cavour, fermamente intenzionato a salvare le moderne strutture della Taylor & Prandi, sfortunata azienda meccanica fondata nel 1846 per la costruzione di piroscafi in ferro che, a causa di sopravvenute difficoltà finanziarie, aveva chiesto l'intervento dello Stato. Nel 1852, il ministro Cavour riuscì a coalizzare una solida compagine imprenditoriale, composta dal banchiere Carlo Bombrini, dall'armatore Raffaele Rubattino e dal finanziere Giacomo Filippo Penco, alla quale impose, promettendo commesse statali, la direzione del giovane e brillante ingegnere meccanico Giovanni Ansaldo, scelto tra i docenti dell'ateneo torinese. Le intenzioni di Cavour erano di dare vita ad una industria piemontese per la produzione di locomotive a vapore e materiale ferroviario, in modo da eliminare le costose importazioni dei macchinari dall'Inghilterra e dal regno delle due Sicilie. - Ansaldo Wikipedia). In 10 anni d'occupazione sono emigrati circa 40.000 abitanti del Sud, circa 123.000 partigiani , "briganti", sono stati fucilati, più di 43.000 "borbonici" deportati nelle carceri del Piemonte.

Carlo Bombrini (Genova, 3 ottobre 1804 – Roma, 15 marzo 1882) è stato un banchiere e imprenditore italiano. Senatore del Regno d'Italia fu amico in gioventù di Giuseppe Mazzini. Fu Direttore Generale della Banca di Genova dal 1845 al 1849, Direttore Generale della Banca Nazionale degli Stati Sardi dalla sua fondazione, 1849, al 1861 ed infine Governatore della Banca Nazionale del Regno d'Italia dal 1861 al 1882.Contribuì all'unità d'Italia finanziando le prime guerre d'indipendenza. Fu amico di Camillo Benso Cavour, del quale condivideva le aspirazioni per una modernizzazione del sistema industriale italiano. È stato tra i fondatori della società industriale Ansaldo. Fu tra i promotori dello smantellamento delle grandi industrie del meridione d'Italia, prima fra tutte quella di Pietrarsa, presentando il piano economico-finanziario che avrebbe alienato tutti i beni del Regno delle Due Sicilie. Famosa la sua frase «Non dovranno mai essere più in grado di intraprendere» riferita ai meridionali. Il suo piano ebbe gli effetti sperati e la sua Ansaldo beneficiò della neutralizzazione di Pietrarsa che non ebbe più commesse, dirottate a Genova.

“PER COMBATTERE E DISTRURRE IL REGNO DELLA MAFIA È NECESSARIO, È INDISPENSABILE CHE IL GOVERNO ITALIANO CESSI DI ESSERE

IL RE DELLA MAFIA”

Napoleone Colajanni, ex garibaldino siciliano e deputato parlamentare scriveva nel suo testo “Nel Regno della Mafia” del 1900. “Dal processo (Notarbartolo) contro due ferrovieri, che man mano si trasforma in un processo contro una forza poderosa e misteriosa, risulta che c’è una grande accusata: la magistratura!”

“… la voce mafia non si trovi registrata nella prima edizione (1838) del Dizionario siciliano – italiano del Mortillaro giudica che la parola e la cosa siano di data recente; e con compiacenza rileva che nella 3^ edizione (1876) a p. 648 venga registrata della parola mafia la seguente spiegazione: Voce piemontese introdotta nel resto d’Italia ch’equivale a camorra. Il Bennici alla sua volta fa derivare camorrista dai Gamos che furono i grandi proprietari di terra nell’antica Siracusa”.

“La Mafia, in fine, rese i più grandi servizi alla causa della rivoluzione contro i Borboni; e in questo addentellato politico sta una delle cause del rispetto e della devozione della medesima verso l’aristocrazia, che in massa era avversa ai Borboni, come notò Alessandro Tasca. I più noti mafiosi furono di più valorosi combattenti nelle cosidette squadre nel 1848; gli stessi Mafiosi si batterono prodemente nel 1860 tra i picciotti di Garibaldi alle porte di Palermo e dentro Palermo. Quando trionfa la leggendaria spedizione dei Mille di Marsala, nel momento in cui una nuova vita doveva cominciare per la Sicilia, la mafia, specialmente nella provincia di Palermo, si trovò circondata dall’aureola del patriottismo e col battesimo del sangue versato in difesa della libertà.

“Sotto l’aspetto amministrativo la mezza libertà dei cittadini e la mezza autonomia degli enti locali sotto i Sabaudi segnarono un vero peggioramento sulle precedenti condizioni sotto i Borboni. Municipi e provincie servirono a gravare enormemente le imposte, a ripartirle per fini individuali, senza unità collettiva, a scopo di nepotismo e di favoritismo, per preparare candidature politiche”.

Colajanni scrive che Alongi, funzionario di P.S. nel 1893 afferma: “Il 90% dei Comuni in Sicilia era amministrato con criteri e forme tali che fanno desiderare il tipo dell’antico governo paterno perché allora si aveva il diritto d’inchiodare sulla gogna i tirannelli locali, il conforto e la speranza di un avvenire migliore e, di tanto in tanto l’intervento violento, ma pure sempre riparatore, del governo centrale”.

giovedì 6 settembre 2012

BRIGANTAGGIO IN VALFORTORE


Le prime voci sui banditi cominciarono a diffondersi in Valfortore nel maggio del 1861. Si cercò quindi di armare, nei vari paesi, delle guardie nazionali, ma difettavano armi e coraggio. Da Baselice vennero richiesti dei carabinieri per tutelare la popolazione da eventuali attacchi. Covo dei briganti prese ad essere il bosco di Mazzocca. Questo bosco (uno dei più grandi dell'ex regno borbonico delle Due Sicilie) si estendeva tra Baselice, Castelvetere, Colle e S. Marco dei Cavoti. Ma un tempo aveva un'estensione ancora maggiore. Esso aveva inizio da un luogo quasi centrale fra i quattro comuni, detto "Toppo delle Felci". Da questo toppo i briganti avevano l'opportunità di scorgere l'avvicinarsi di persone e di soldati. Minacciati, essi si nascondevano nel bosco, donde potevano con molta facilità piombare ora sull'uno ora sull'altro paese. Le gesta cominciarono nel giugno. Il 30 di questo mese a Mazzocca una banda armata, capeggiata da un tal Francesco Saverio Basile, detto il Pelorosso,da Colle Sannita, aggredì il guardaboschi del principe di Colle, nonché altre persone (1). Nella notte successiva lo stesso Basile con 60 seguaci ben armati si recò nella masseria di Francesco Iaccasile in Decorata, chiedendogli la somma di duemila ducati. Per rassicurare gli animi delle popolazioni profondamente scosse e turbate, il governatore della provincia di Benevento, Carlo Torre, inviò una colonna mobile del 62° di linea (50 uomini) del tutto insufficiente alle necessità. Per giunta la colonna venne ben presto richiamata, del che approfittarono i briganti per continuare nelle loro gesta criminose. Il 19 luglio il Pelorosso minacciava di assalire S. Croce del Sannio; in tale circostanza fu ucciso un certo Giuseppe Di Cecco. Il 21luglio fu ucciso il sindaco di Reino (e il suo mento fu regalato ai Baselicesi) (2); nella stessa giornata i briganti penetrarono in Castelpagano, disarmarono la Guardia Nazionale, distrussero gli stemmi sabaudi e l'effigie di Garibaldi, misero a soqquadro diverse abitazioni e uccisero un milite. Sempre nel medesimo giorno la Guardia Nazionale di Colle Sannita s'imbatté a Toppo delle Felci in 26 briganti capeggiati dal Pelorosso e dopo tre ore di scontro fu costretta a fuggire, lasciando morti sul terreno 4 militi, tra cui Luigi Mascia e Giorgio Petti. In serata la squadra del Pelorosso scese a Mazzocca e saccheggiò la masseria del barone Petruccelli di Baselice, al quale mandò pure un biglietto di ricatto. Costretto da questi avvenimenti, il governatore di Benevento Carlo Torre, inviò in perlustrazione due compagnie del 62° fanteria, al comando del luogotenente Foresti. Costui il giorno l° agosto giunse con i suoi uomini a Colle Sannita; vi lasciò 20 soldati e con il resto proseguì alla volta di S. Bartolomeo in Galdo. Nella notte seguente (tra il l° e il 2) una banda di briganti composta di circa 250 uomini, sotto la guida di tal Nicola Collara, penetrò in Colle, uccise una sentinella, disarmò i 20 soldati lasciati dal Foresti e si recò in chiesa ad assistere al canto del Te Deum. Il mattino seguente, 2 agosto, il luogotenente Foresti ripartiva da S. Bartolomeo con i suoi 35 uomini diretto a Colle; venuto però a conoscenza di quanto era accaduto durante la notte, si asserragliò in Baselice, in attesa di aiuti. Nei giorni successivi i briganti infuriarono. Il 6 agosto il Pelorosso con 50 uomini a cavallo entrò in S. Marco dei Cavoti, respinse le truppe accorse, "ripristinò" nel paese la monarchia borbonica. Nello scontro furono uccisi due soldati e cinque militi, tra cui Vincenzo Fiorino di Buonalbergo; i cadaveri furono mutilati e bruciati. Venne ucciso anche Domenico Fusillo di S. Marco per essersi rifiutato di far causa comune con i briganti e di inneggiare al re borbonico. Il giorno 8 il Pelorosso entrava come trionfatore in S. Giorgio la Molara; quindi passava a Pago e a Pietrelcina; aveva con sé più di mille uomini armati di spiedi e di mazze. Però all'alba del 10, sorpreso dai Piemontesi, non potendosi difendere, dové sloggiare. Comunque la situazione era preoccupante e vivo malumore agitava le popolazioni. Per la qual cosa il nuovo governatore della provincia di Benevento, Giovanni Gallarini, riuscì ad avere dal generale Enrico Cialdini una colonna di circa duecento uomini e con essa partì da Benevento il 3 settembre. Prima tappa della colonna fu Pescolamazza (oggi Pesco Sannita); quindi S. Giorgio La Molara, ove furono arrestate le persone maggiormente indiziate e si ebbero anche delle fucilazioni. Poi la colonna si diresse a Molinara per proseguire alla volta di S. Marco dei Cavoti, ove giunse nel tardo pomeriggio del 6 settembre. Quando i soldati stavano salendo l'ultima erta per entrare nel paese, i briganti, che nel corso della giornata si erano tenuti sulle alture, accolsero l'avanguardia a fucilate, ma all'assalto delle truppe si diedero alla fuga. L'accoglienza della popolazione però fu fredda. Da S. Marco il governatore Gallarini proseguì per Colle Sannita. Successive tappe furono Circello, dove a guardia del paese vigilavano ben 150 uomini, e Castelpagano, che il 30 luglio aveva subito danni notevoli per due successive incursioni di briganti. Il 10 settembre la colonna raggiunse, come ultima tappa, Castelvetere, dove fu arrestato il marchese Moscatelli. A questo gesto di forza del governatore di Benevento sembrò placarsi un po' l'irruenza dei briganti. E cominciò pure la resa di alcuni banditi. Così, ad esempio, il 17 settembre si consegnarono 4 briganti di Baselice: Giovanni IampietroLeonardo IannelliMichele del Grosso e Domenico di Onofrio Petrocci (3). Nel mese di settembre il governatore Gallarini fu a Baselice. E nell'ottobre si portò a Baselice anche il generale Nicola Fabrizi, per incarico del generale Cialdini. Ambedue alloggiarono in casa del barone Rosario Petruccelli (4). Nel mese di novembre fu arrestato dalla Guardia Nazionale di Baselice Nicola Baldini di Molinara. Nel dicembre furono arrestati, sempre dalla Guardia Nazionale di Baselice, Giuseppe Nardoni di Campolattaro e Michele Iorio di Buonalbergo (5). Dal canto suoFrancesco Saverio Basile, il Pelorosso, dopo le imprese compiute nel Beneventano ai primi di agosto, si scontrò a S. Pietro Infine con un reparto di truppe italiane; ebbe la peggio, ma riuscì a fuggire in territorio pontificio. Respinto da un distaccamento francese nei pressi di Ceprano, si scontrò di nuovo con le pattuglie italiane, le quali dopo non lieve lotta riuscirono a impadronirsi di lui e di alcuni suoi gregari. Portava l'uniforme borbonica e aveva con sé molti oggetti di valore e 600 scudi romani. Venne fucilato. Nello scontro di S. Pietro Infine fu catturato anche Antonio Caretti, un luogotenente del Basile, ma più irruente di lui, detto "il bravaccio del Beneventano". Era un ex ufficiale borbonico, intelligente e coraggioso. Fu fucilato a S. Germano il 24 agosto 1861 (6). Verso la fine del 1861 in Valfortore il brigantaggio sembrava in declino. Ma nella primavera e nell'estate del 1862 riarse di nuovo, non soltanto ad opera di piccole bande locali (Giuseppe Del Grosso, Marco De Masi, Giovanni D'Elia, Teodoro Ricciardelli), quanto soprattutto ad opera di capibanda rimasti famosi nella storia: Michele Caruso, Giuseppe Schiavone e Giambattista VaranelliMichele Caruso, un mostro in sembianze umane, era un pastore di Torremaggiore. Attestatosi in Capitanata, sulle sponde del Fortore, oltre ad atterrire le popolazioni locali, compiva frequentissime incursioni nel Molise e nel Beneventano, divenendo un vero terrore per le zone che attraversava. "Coraggioso e abile capo di briganti" ebbe a definirlo il generale Emilio Pallavicini (7)Giuseppe Schiavone da S. Agata di Puglia fu lui pure uno dei più abili e arditi capibanda; terrorizzò per lungo tempo varie contrade, collaborando molto spesso col Caruso nel portare a termine ripetute, audaci imprese contro truppe e guardie nazionali. Al Caruso si univa spesso anche Giambattista Varanelli, già vaccaro di Celenza, anch'egli capo di una discreta banda. Questi furono i tre più famosi capibanda che nel 1862-63 atterrirono il Molise, il Beneventano e la Capitanata. Inferiore ai tre sopraddetti era Marco De Masi, di S. Marco dei Cavoti, ex servitore dei baroni Petruccelli di Baselice, che aveva una piccola banda di circa 20 uomini a cavallo e spesso collaborava con il Caruso, aggirandosi per lo più soltanto nella Valfortore. Con Michele Caruso collaborava di frequente anche Teodoro Ricciardelli, lui pure di S. Marco dei Cavoti. Giuseppe Del Grosso invece limitava le sue imprese in genere tra Colle Sannita e Circello, mentre Giovanni d'Elia preferiva aggirarsi in quel di Castelfranco. Le bande comunque si univano, si separavano, si riunivano, partecipavano insieme ad eccidi, sequestri, atti di grassazione. Allorché si trovavano nell'Alto Sannio, avevano il loro rifugio nel bosco di Mazzocca, donde movevano verso S. Bartolomeo, Alberona, Lucera, passando con estrema facilità dall'una all'altra provincia, dal Molise al Beneventano, dal Beneventano in Capitanata. E seminando ovunque morte e rovina. Il 13 giugno 1862 in contrada "Acqua Partuta", nel tenimento di Foiano, le bande di Caruso e di Schiavone uccisero 9 guardie mobili appartenenti al 36° fanteria, più 5 carabinieri: tra gli altri restarono sul terreno Francesco Mussuto di S. Bartolomeo, Angelo Casamassa di Foiano e il brigadiere dei carabinieri Alessandro Falini, un nobile fiorentino (8). Ai primi di agosto, sempre del 1862, si unì alla banda di Caruso anche un baselicese, destinato ad avere lui pure una discreta parte nel brigantaggio beneventano: Antonio Secola (9). Era questi nato in Baselice il l° marzo 1834 da Michele e Maria Rosa Tresca; aveva appreso l'arte del muratore; il 17 settembre 1856 si era unito in matrimonio con Maria Diletta Morrone, nata il 12 luglio 1835 (10). Nel 1859 si trovava rinchiuso nel carcere di Campobasso ad espiare una pena di sei anni comminatagli dalla Gran Corte Criminale di Lucera per furto commesso in Castelfranco. Essendo addetto alla costruzione del tribunale, riuscì a fuggire il 29 luglio e si ritirò in Baselice, ove visse quasi tre anni indisturbato, esercitando la sua arte. Verso la metà di luglio del 1862 il Secola apprese da D. Benedetta Ricci, moglie del dottor Epifanio Giampieri (presso cui si trovava a lavorare), che era stato emesso un mandato di cattura nei suoi riguardi per l'evasione dal carcere, per cui il 26 dello stesso mese si diede alla macchia e si unì con Antonio Lisbona, pure di Baselice, latitante perché renitente alla leva. I due rimasero per una ventina di giorni travestiti nelle campagne di Baselice, in casa di contadini amici, nelle contrade "aia carravana" e "sei corde". Da quest'ultimo luogo videro passare la banda di Michele Caruso, per cui decisero entrambi di aggregarsi a quel capo. E così Antonio Secola e Antonio Lisbona si trovarono, loro malgrado, briganti e furono incaricati dal Caruso di tenere la corrispondenza con i Baselicesi, ai quali essi chiedevano vino, rosolio, sigari e vestiti per la banda. Il 21 agosto Secola era con CarusoMarco De MasiAntonio Lisbona e certo caporal Tinterelli al Toppo delle Felci: di là i briganti mandarono un biglietto di ricatto al barone Petruccelli. Nei giorni successivi egli partecipò all'invasione di Ginestra degli Schiavoni, dove i banditi, tra l'altro, lacerarono la bandiera nazionale e catturarono l'arciprete, il quale si rifiutava di farli entrare in chiesa a cantare il Te Deum (e pare che autore delle due imprese fosse proprio il baselicese). Quindi, dopo alcuni giorni, il Secola si separò dal Caruso e si aggirò per varie province, fino in Basilicata, ove conobbe famosissimi capibanda, come Carmine Donatello (detto Crocco e Giovanni Fortunato (soprannominato Coppa). Rientrò poi nel territorio di Baselice con altri 8 o 9 briganti originari di S. Marco, di Baselice, di S. Giorgio e di S. Bartolomeo, sotto la guida di Teodoro Ricciardelli. Al seguito di costui egli fu presente ad un conflitto avvenuto presso Circello, in cui rimase ucciso il capitano della Guardia Nazionale di quel centro, Zanoni, insieme con altri sei tra ufficiali e militi. Ma in seguito il Secola sostenne di non aver preso parte al combattimento per aver la giumenta zoppa. Il 29 settembre Francesco La Civita di S. Bartolomeo in Galdo (corriere postale e capitano della Guardia Nazionale) tendeva un agguato alla banda di Giambattista Varanelli, ma veniva ucciso da un colpo sparato da un brigante. Il 30 settembre Antonio Secola era di nuovo con Marco De Masi a Mazzocca, donde proferì minacce contro le autorità baselicesi perché avevano carcerato i suoi genitori. Il 13 ottobre fu visto con Angelomaria Luciano alla casa di campagna del barone Petruccelli; il 27 era a Mazzocca con Giuseppe Luciani di Castelvetere, Antonio Lisbona di Baselice e altri. Il 4 novembre, al seguito di Michele Caruso, partecipò ad un sanguinoso scontro avvenuto presso S. Croce di Magliano: il Caruso alla testa di circa 200 uomini a cavallo sterminò quasi completamente la 13a compagnia del 33° fanteria che il capitano Giuseppe Rota, ex garibaldino dei Mille, gli aveva condotto imprudentemente contro. Rimasero sul terreno lo stesso capitano, il luogotenente Perino, due carabinieri e diciannove soldati (11). Sulla fine dell'anno il Secola corse il rischio di perdere un occhio. Si trovava con le bande unite di Marco De Masi e "del Monachiello di S. Bartolomeo", di nome Donato, nella masseria di un tal Facchino di Foiano. Mentre discendevano una scala, il fucile, che un brigante, detto "il Monachiello di Mugnano", portava infilzato al braccio destro, urtando esplose e il Secola, che seguiva, fu colpito all'occhio. Egli venne medicato con albume d'uovo, erbe aromatiche, bagnature e suffumigi da Antonio Lisbona, valente - a dire dello stesso Secola - in medicina. In tutto questo periodo egli si recava spessissimo in paese, tranquillamente, data l'omertà che vigeva nei suoi riguardi, nonché il terrore che riusciva ad incutere in tutti i compaesani. Il 1863 fu un anno di sangue. Eppure esso era cominciato nel Beneventano sotto buoni auspici. Infatti il giorno 11 gennaio si consegno ai carabinieri il capobanda Marco De Masi, di S. Marco dei Cavoti, promettendo la sua collaborazione per la cattura di altri briganti. Dopo pochi giorni fu preso e fucilato Ferdinando Iatalese di Foiano e si consegnarono altri due banditi, pur essi di Foiano. Ma il brigantaggio era ben lungi dall'essere represso, che anzi si riaccese con maggior violenza, ad opera soprattutto del Caruso, di Schiavone, di Varanelli, nonché del Secola stesso. Come al solito, CarusoSchiavone e Varanelli scorrazzavano per diverse province, mentre il Secola con la sua piccola banda limitava le sue azioni per lo più nel Beneventano. Ecco come nei suoi riguardi si esprimeva il 4 luglio 1863 il prefetto di Benevento Decoroso Sigismondi: "Tra le bande di briganti che sogliono infestare questa provincia la più molesta è quella che sotto gli ordini di un tal Secola e composta di undici masnadieri a cavallo travaglia ferocemente e a preferenza il circondano di S. Bartolomeo in Galdo. Tuttoché incessantemente perseguitata ed incalzata nulladimeno si è finora sottratta ed ogni giorno si sottrae agli attacchi della forza pubblica in ciò aiutata forse dalla stessa pochezza del suo numero e certo dalla singolare rapidità e dalla incredibile audacia dei suoi movimenti" (12). In effetti il Secola non fu crudele, bensì molto abile ed astuto. Ci fu un tal Francesco Paolucci di Colle che propose alle competenti autorità militari un suo progetto: voleva egli armare 15 individui, cinque dei quali avrebbero finto di aggregarsi al Secola, per annientarne la banda. Il Paolucci poneva delle condizioni, ma non se ne fece niente (13). Sarebbe lungo enumerare tutte le imprese di Caruso, Schiavone, Varanelli e Secola; mi limiterò ad accennare a quelle avvenute nelle zone della Valfortore. Nell'inverno 1962-63 a Baselice suscitò molto scalpore il sequestro del possidente don Nicola de Lellis. Il gentiluomo fu un mattino invitato dal garzone Fedele Natale a scendere in giardino, ove - a dire del Fedele - egli era atteso da alcuni operai. Ma in giardino ad attenderlo, travestito da donna, c'era il Secola, il quale fece salire sulla sua giumenta bianca il de Lellis e lo condusse in contrada S. Felice. Fedele Natale, il garzone costretto suo malgrado a tradire il padrone, dovette consegnare un biglietto di ricatto al fratello del gentiluomo, arciprete D. Camillo. La somma richiesta era di 12.000 ducati. A sera, soddisfatte tutte le pretese dei briganti, don Nicola poté riabbracciare i suoi cari in famiglia (14). Il 13 febbraio Giuseppe Schiavone partiva con 60 uomini a cavallo dalla sua abituale dimora situata tra Accadia e S. Agata di Puglia, percorreva il territorio di S. Bartolomeo in Galdo e nella notte del 17, eludendo le truppe e le Guardie Nazionali, passava a due sole miglia da Benevento. Per otto giorni si aggirò nei dintorni del capoluogo, uccise un sacerdote (fratello del sindaco di Montesarchio), sconfisse le Guardie Nazionali di Paduli e infine sterminò al cascinale Francavilla un drappello del 39° fanteria che lasciò sul terreno 16 morti, tra cui un ufficiale (15). Quindi si ritiro quasi indenne e il 4 marzo invase Ginestra degli Schiavoni. Vale la pena di ricordare che dal giugno 1861 al marzo 1863 si verificarono nel Beneventano 17 invasioni di paesi, centinaia di rapine e di violenze minori, nove grandi stragi di animali, dieci incendi di messi e covoni, dodici incendi di masserie (16). Il 5 marzo fu ucciso da Michele Caruso "all'Acqua Partuta" Giovanni Laudato da Benevento. Il giorno successivo in Baselice fu sequestrato don Epifanio Giampieri da parte del Secola, dei due fratelli Antonio e Domenico Lisbona e di tal Calabrese. Il giorno 17 fu ucciso Donato Pasquale di Foiano. Memorabile a Baselice il tentativo di assalto al palazzo Lembo, avvenuto in una notte di maggio, pare tra l'8 e il 9. Or dunque 12 briganti, tra cui Nicola Lazzaro di Pago, Baldassarre Iansiti di Molinara, Teodoro Ricciardelli di S. Marco, Antonio e Domenico Lisbona, il Secola, un tal "zio Antonio" da S. Giorgio la Molara, certo Pellaro di S. Paolino, sotto la guida di un funaio di "Ripa da Mosano" di nome Costantino, ex garzone del Lembo, penetrarono nel palazzo, dopo aver abbattuto la porta dell'orto e una seconda entrata con arnesi tolti dal mulino dello stesso possidente. Erano già per la gradinata, quando una figlia del Lembo avverti dei rumori - ancora oggi si tramanda che ad un brigante sfuggisse di mano un arnese di ferro: le scale in realtà erano cosparse di olio - e chiamò il padre don Vincenzo, il quale armatosi prese a gridare: "Lascia che entrino, che saranno tutti uccisi". Vistisi scoperti, i briganti fuggirono (17). Il 9 giugno una banda di il briganti - con ogni probabilità quella del Secola, visto che il rapporto del prefetto di Benevento Sigismondi redatto il 4 luglio successivo parla appunto di undici masnadieri inseguita da truppe regolari di stanza a Circello fuggi verso Toppo delle Felci; benché incalzata, la banda ebbe modo di uccidere Francesco Verdura di Fragneto e Giacomo Fiscarelli di Circello. Verso la metà di giugno Michele Caruso e Giuseppe Schiavone - che rimanevano pur sempre i briganti più terribili della zona e tormentavano incessantemente le due sponde del Fortore, nonché il territorio compreso fra i monti della Daunia e quelli del Sannio - riunirono le loro forze; il 22 ebbero uno scontro con i bersaglieri presso Campo Reale; quindi inflissero perdite a un drappello del 22° fanteria; il 23 penetrati nel territorio di Orsara uccisero il sindaco, il capitano della Guardia Nazionale e 21 militi (18). Il giorno 26 furono trucidati presso S. Bartolomeo in Galdo Leonardo Catullo di quello stesso Comune e Giovanni Maddaloni di Bonea, un povero "viaticale" che faceva ritorno dalla Puglia ove era stato ad acquistare grano. Verso la fine del mese i due arditi capibanda arrivarono a minacciare perfino Benevento (19). Nel capoluogo la popolazione era in preda a grande agitazione: il presidio militare si trovava fuori dell'abitato, attiratovi dalle rapide manovre delle bande; solo il sopraggiungere di rinforzi ristabilì la calma. Caruso e Schiavone però continuarono nelle loro audaci scorrerie. Il 13 luglio, sempre da Caruso, furono trucidati Francesco Tostino da Napoli e Vincenzo Mauro da Capua, mentre nelle vicinanze di S. Bartolomeo riattivavano i fili telegrafici. Il 16 i due banditi uccisero Francesco Polvere di Pagoveiano; nello stesso giorno si sottrassero all'inseguimento della cavalleria, della fanteria e dei bersaglieri, anzi tesero un agguato presso San Marco dei Cavoti a un drappello di cavalleggeri, uccidendone tre. Il giorno 18 però furono raggiunti presso il bosco di Tremolito da due squadroni di ussari di Piacenza e dal 22° battaglione di bersaglieri e persero 10 uomini. Ciò nonostante essi continuarono imperterriti nelle loro audaci e crudeli imprese (20). L'11 agosto il baselicese Giuseppe Bianco fu ucciso daGiambattista Varanelli in campagna, dopo aver dovuto assistere alla distruzione di tutte le sue sostanze: grano, fave, 5 maiali, 11 galline, 3 pecore, mobili e vestimenta (21). Il 27 agosto la banda dello stesso Varanelli, forte di 27 uomini a cavallo, assalì nella zona di Brecce il corriere postale Donato Picciuti. Nel mese di settembre, dopo l'approvazione della "Legge Pica" che colpiva i manutengoli e i favoreggiatori, Michele Caruso, vedendo forse che i contadini esitavano sempre di più nel sostenerlo, esplose in veri atti di estrema ferocia. Ebbro di sangue, nel suo odio contro le guardie nazionali prese a colpire ciecamente e spietatamente tutti quelli che fossero sospettati di tradimento. Da solo o in unione con altri capibanda, che in genere accettavano di collaborare in sottordine con lui, specialmente in unione con Giuseppe Schiavone, egli commise dei veri eccidi. Il l° settembre, insieme con Giambattista Varanelli, egli uccise nell'agro di Riccia i contadini Michele Di DomenicoDomenicantonio Moffa e Giuseppe Ciccaglione.Il 6 settembre uccise presso Torrecuso 4 soldati e 10 guardie nazionali(22). IL giorno 7 compì una vera carneficina presso Castelvetere Valfortore: ben 27 persone inermi, vecchi, donne e bambini, furono trucidate (23). All'eccidio era presente con la sua banda anche Antonio Secola, il quale però in seguito sostenne di non aver sparato neppure un colpo. Il giorno 9 carneficina ancora maggiore ebbe a verificarsi a S. Bartolomeo in Galdo, sempre ad opera del Caruso (24). Furono assassinate da 30 a 40 persone (25). Altri, come Mattia Cifelli e Michele Cenicolo, morirono in seguito alle ferite riportate. Anche a questa carneficina era presente il Secola, il quale però, successivamente, nel corso degli interrogatori che ebbero luogo alla sua consegna, affermò ancora una volta di non aver sparato neppure un colpo. Successivamente il Caruso uccise 7 possidenti lungo la via Sannitica, 14 contadini presso Colle, 7 in territorio di Morcone, 6 presso il Cubante, 16 alla masseria Monachella, presso Torremaggiore (26). Costretto da simili audacie e da tale efferatezza, il generale Emilio Pallavicini, che alla metà di settembre aveva assunto il comando della zona militare speciale del Beneventano e del Molise, decise di far di tutto per liberare il territorio da un simile mostro. A tal fine, tra l'altro, nei primi di ottobre egli tenne per alcuni giorni il suo quartiere generale a Baselice in casa del barone Petruccelli. In quella circostanza Baselice riuscì ad ospitare ben 4 squadroni di cavalleria e più compagnie di truppe di linea. Vista la presenza in Baselice del generale Pallavicini, il Secola ebbe il desiderio - o forse finse - di volersi consegnare: come segno di convenzione e di riconoscimento egli mandò al generale il suo orologio per mezzo di tal Giuseppe Ceci. Ma, come ebbe a dire in seguito, nel frattempo passò per la zona il Caruso che cercò di dissuaderlo. Se ne astenne definitivamente quando il Caruso fece fucilare due briganti - uno era il Pellaro - che volevano comportarsi allo stesso modo. Così il Secola non si consegnò e il Ceci tenne per sé l'orologio del brigante. In questo periodo il baselicese ora si univa con Caruso, ora si isolava nei pressi di Vitulano. Frattanto Michele Caruso non aveva smesso neppure un istante di compiere misfatti. Il 2 ottobre aveva ucciso Nicola Ventura di Buonalbergo; il 6 ottobre Angelo Maria Iannone presso Pietrelcina; nella stessa giornata aveva compiuto una strage a S. Giorgio la Molara, uccidendo tra gli altri Domenico Carosella e Pietro Frusciante. Il 9 ottobre era stato ucciso lungo il Fortore Donato Creatura di Castelfranco, mentre recava un plico alle truppe in Baselice. Ma ormai il cerchio si stava stringendo intorno al famigerato brigante. Il generale Pallavicini cercò in tutti i modi di "agganciarlo" e vi riuscì in ottobre alla masseria Pasquale, in territorio di Morcone, e presso Torre Francavilla, infliggendogli sensibili perdite (27). Numerosissimi furono gli scontri fra truppe regolari e guardie nazionali da una parte e le bande di Caruso e dei suoi luogotenenti dall'altra. Il 23 ottobre le guardie nazionali di S. Marco la Catola sorpresero nel bosco di S. Angelo le squadre di Caruso e di Varanelli. Quest'ultimo rimase ucciso nel conflitto; la sua testa fu recisa e portata a Celenza, sua patria (28). Anche per Michele Caruso però era vicino il momento del rendiconto. Egli nel mese di ottobre aveva rapito nel territorio di Riccia una giovane, Filomena Ciccaglione - cui 40 giorni prima aveva ucciso il padre - e l'aveva costretta a seguirlo. La povera giovane, pur nella sua disgrazia, si era adoperata per salvare l'esistenza di parecchi infelici caduti nelle mani del feroce bandito, implorando da lui la loro libertà in nome dell'amore che egli le portava; ma intanto covava nel cuore il desiderio di vendetta. Ella si trovava nel Beneventano con il Caruso quando costui, prima di partire per quella che sarebbe stata la sua ultima incursione in Capitanata, l'affidò a tal Capozzi di Molinara. Ai primi di dicembre il brigante tornava nel Beneventano per riprendere la giovane. Ma il generale Pallavicini, informato deI ritorno del bandito, ordinò al distaccamento di Montefalcone, comandato dal luogotenente Alliaud, di effettuare gli opportuni appostamenti (29). In uno di questi, durante la notte tra il 6 e il 7 dicembre, sulla strada per Montefalcone, in contrada Costa dell'Arso, presso la masseria Biaccio nella quale il Caruso si era rifugiato, i bersaglieri assalirono i briganti, uccidendone 7 (30)Michele Caruso però, profittando del trambusto provocato dall'eccessiva foga con cui i soldati si erano lanciati all'assalto nella speranza di catturare proprio lui, sulla cui testa pendeva una taglia di 20.000 lire, riuscì a fuggire e a dirigersi con un suo nipote, Francesco Festa, alla casa del Capozzi; ma ivi, su delazione della Ciccaglione, egli fu arrestato dal sindaco di Molinara, Nicola Ionni, la sera del 9 dicembre. Mentre veniva tradotto a Benevento legato su un asino, tra una folla desiderosa di linciarlo, egli procedeva "cinicamente fiero ed impassibile" (31). Il giorno 12 si tenne il processo. Richiesto da un giudice se sapesse leggere e scrivere, Caruso rispose: "Ah, Signuri, s'avesse saputo legge e scrive avria distrutto lo genere umano!(32). Alle 14,30 della stessa giornata egli fu fucilato a Benevento, fuori Porta Rufina, alla presenza di numerosa folla. La povera Filomena Ciccaglione morrà di tisi in Riccia appena ventiduenne, il 31 gennaio 1866. Era un bel tipo di bellezza muliebre (33). Con la morte di Caruso il brigantaggio in Valfortore ebbe un terribile colpo. I banditi superstiti della sua squadra si dispersero. Il Secola da parte sua raggiunse gli antichi compagni. Ben presto però si separò dai due fratelli Lisbona e da Beniamino Innestato di S. Bartolomeo (detto "Sargentiello") e ritornò alla volta di Vitulano. Così ognuno andò verso il proprio destino. La sera del l° gennaio 1864 la baselicese Caterina Papillo rivelò a Luigi Marengi, lui pure baselicese, la presenza di briganti nelle vicinanze della campagna coltivata dalla sua famiglia. Il Marengi riferì la notizia al sindaco Rosario Petruccelli. Si radunarono quindi i militi della Guardia Nazionale di Baselice, sotto la guida del tenenteGoffredo de Nonno. Facevano parte del drappello Domenico Carusi (sergente maggiore), Michele Cocca (sergente maggiore), Vincenzo Capuano (sergente), Pasquale Canonico (sergente), Luigi Marenzi(caporal furiere), Raffaele Agostinelli (caporale), Leonardo Del Vecchio (caporale), Luigi Lepore (caporale), Samuele Monaco (caporale),Giuseppe Del Vecchio Crosca (caporale), Giovan Battista Papera (caporale) e Donatangelo de Nonno (chierico). I militi si diressero verso la zona indicata dalla Papillo. Nel rovistare un ammasso di paglia scoprirono l'esistenza di una grotta nella quale si annidavano tre briganti. Due di costoro, precisamente Domenico Lisbona baselicese e Cosmo Bonga di Pietra Monte-corvino, rimasero uccisi nel conflitto; il terzo, Antonio Guerriero di Castelnuovo, fu preso vivo. I militi, nell'ebbrezza della gioia, non avendo alcun mezzo di trasporto per condurre i cadaveri in paese onde "esporli al pubblico esempio", credettero opportuno recidere loro le teste da portare appunto in Baselice. Cosa che fecero (34). Questo avveniva la mattina del 2 gennaio. Il Guerriero fu consegnato alle autorità militari e dopo un regolare processo fu fucilato nelle carceri di Baselice il giorno 6 gennaio, giorno dell'Epifania (35). Prima dell'esecuzione era stato confessato dall'arciprete D. Camillo de Lellis; fu sepolto nel camposanto; aveva 22 anni. Il Marengi ebbe in premio dal Governo lire 100, i militi lire 1500 e la Papillo lire 300 (36). Dopo la morte di Domenico Lisbona, dei briganti baselicesi restavano Antonio Secola Antonio Lisbona. Nel mese di febbraio il Secola fu sul punto di esser catturato. Nella notte tra il 16 e il 17 difatti il brigante si nascose nel pagliaio di Antonio Colucci Nizza, alias Pizza. Il mattino seguente si trovò a passare per il posto la Guardia Nazionale di Castelvetere. Il bandito stava per cadere nelle mani dei militi, quando la moglie del Colucci, Maria Antonia Barbati, cominciò a gridare: "La corte, la corte". Così il Secola si provvide di una gonna e di un panno rosso, con cui riuscì a non dar nell'occhio e a salvarsi attraverso il bosco di Riccia. Il Colucci Nizza venne arrestato e deferito unitamente con la moglie al tribunale militare di Caserta (37). Dal 17 febbraio al 30 maggio il brigante vagò sui monti di Vitulano, di Paupisi, sul Taburno, insieme con la comitiva di Cosmo Giordano e Luciano Martini, famosi capibanda pur essi. Nel frattempo il 26 marzo veniva ucciso Antonio Lisbona in una masseria di Alberona a colpi di roncone da parte degli stessi coloni. Pertanto il Secola era rimasto proprio solo. "Svanita la speranza che, lungi dal farsi l'Italia con Roma e Venezia, sarebbe tornato presto a sedersi sul trono di Napoli Francesco II, il quale avrebbe perdonato qualunque misfatto"; svanita la speranza di poter passare nel dominio pontificio, non gli restava altra prospettiva che quella di consegnarsi. Il 31 maggio si recò nella masseria di Ferella per procurarsi del cibo, ma, avendo visto due persone armate che si dirigevano verso di lui, fuggi. Fu inseguito invano dalla Guardia Nazionale di Baselice, comandata da Goffredo De Nonno. Andò verso Calise, poi, per ingannare la Guardia Nazionale, tornò indietro verso Monteleone, di qui si recò a Fragneto, dove abbandonò la giumenta che aveva e si impadronì del cavallo di tal Giovannino Petrusciano. Da Fragneto a Benevento, nella piana di S. Cosimo, dove lasciò il cavallo e prese un'altra giumenta. Finalmente la mattina del 2 giugno, ritornato nei pressi di Baselice, si recò nella casa rurale di Vincenzo Ciufolo Camposello, da dove inviò una lettera al sindaco Petruccelli, in cui diceva di volersi consegnare. Quindi si avvicinò a due tiri di fucile dall'abitato. Era nella vigna di Giovannangela Cece Del Vecchio, quando scorse dei soldati che andavano in cerca di lui, per la qual cosa gridò loro: "Qua, qua, che sono Secola che mi vengo a presentare" e si consegnò nelle loro mani. Erano tre soldati del l° battaglione del 62° fanteria, con i quali si trovava anche il sergente della Guardia Nazionale di Baselice Leonardo Del Vecchio (38). Condotto in Baselice, il Secola fu sottoposto a un primo interrogatorio, alla presenza del sindaco Petruccelli, del giudice del mandamento, del brigadiere dei carabinieri e del capitano della truppa stanziata a Baselice. Nella stessa giornata, condotto in S. Bartolomeo in Galdo, ebbe a subire un secondo interrogatorio da parte del maggiore comandante la truppa di stanza in S. Bartolomeo. Quindi il 4 giugno rese una nuova deposizione in Benevento dinanzi all'ispettore di Pubblica Sicurezza, signor Baculo. Infine il 6 giugno fu sottoposto a un quarto interrogatorio nella camera del castello di Caserta. Giudicato dal tribunale militare di Caserta, fu condannato il 21 gennaio 1865 ai lavori forzati. Sfuggi pertanto alla fucilazione per essersi egli stesso consegnato. Mori nello stabilimento di pena di Portolongone, nell'isola d'Elba, per edema polmonare, il 21 aprile 1885, all'età di 51 anni(39). Con la consegna del Secola, che non era stato il più famigerato bandito delle nostre contrade, ebbe praticamente fine il brigantaggio nel territorio di Baselice. Ancora oggi le gesta di Antonio Secola sono arricchite di leggenda nella fantasia dei Baselicesi: si parla di sfide ai carabinieri, di ardite galoppate attraverso l'abitato sul suo cavallo bianco, o la sua bianca giumenta; si favoleggia di tesori di briganti sepolti in questo o quel luogo, di gente arricchita con il danaro inviato in paese dai banditi; si ricordano persone sequestrate che riuscirono a sfuggir dalle mani dei briganti, si ricordano tentativi di sequestro andati a vuoto; si parla comunque ancora di paura e di terrore... Dei capibanda famosi, di cui ho parlato tante volte, rimaneva solo Giuseppe Schiavone. Egli fu preso a Melfi la notte tra il 25 e il 26 novembre dello stesso anno 1864; il mattino del 28 fu giudicato da un consiglio di guerra e condannato alla fucilazione. Il giorno fissato per l'esecuzione, uscendo dal carcere, chiese un sigaro all'ufficiale che comandava la scorta; prima di essere fucilato gridò alla folla: "Popolo, tu solo puoi ancora salvarmi, per te ho sempre combattuto!"(40). Alle ore 9 del 29 novembre giaceva morto. Dei briganti minori di cui si è fatto cenno in precedenza, il capo-banda Giovanni D'Elia fu ucciso da Donato Giannini di Castelfranco; il "Monachiello" di S. Bartolomeo in Galdo fu trucidato dalla Guardia Nazionale di Alberona. Fu stroncato così con la forza il brigantaggio, ma non fu posto rimedio alle cause dalle quali esso aveva avuto origine (41). Prima di chiudere questo capitolo dedicato al brigantaggio e in modo particolare ai briganti di Baselice, mi corre l'obbligo di affermare che non mancarono neppure i Baselicesi che adempirono pienamente loro doveri di veri italiani nei confronti della patria unita. Così il baselicese Tommaso Lepore che combatté sotto Isernia contro le truppe borboniche e poi si adoperò contro il brigantaggio in Capitanata, facendo parte delle squadriglie a cavallo (42). Così il signor Antonio Lepore (43), il quale, nato a Baselice il 12 febbraio 1844, partì a 21 anni soldato di leva il 19 gennaio 1865 e rimase sotto le armi ben 10 anni. Ebbe pertanto modo di partecipare quale caporale alla terza "guerra d'indipendenza", meritando il privilegio di fregiarsi della medaglia commemorativa delle guerre combattute per l'Indipendenza e l'Unità d'Italia, medaglia istituita con R. D. del 4 marzo 1865. Nominato sergente il 1° gennaio 1868, partecipò alla campagna per l'occupazione di Roma, acquisendo il diritto di fregiarsi della medaglia istituita dal Comune di Roma per i benemeriti della liberazione della città eterna. Nominato Sergente Conducente il l° ottobre 1870, Sergente di Compagnia il l° marzo 1871 e Furiere Zappatore il l° ottobre 1874, si congedò il 27 febbraio 1875(44).

NOTE
1. Per questi primi episodi di brigantaggio si veda soprattutto ZAZO, Gli avvenimenti cit., in Samnium, 1952, p. 1 Ss.
2. Cf. DE NONNO, poche parole in difesa della Guardia Nazionale di Baselice, Napoli, 1864.
3. Cf. Pel Barone Rosario Petruccelli, giudicato ed assoluto dal Tribunale Militare di Caserta, anonimo, Napoli, 1864, posizioni a discarico, p. 5.
4. Ibidem, pp. 4-6.
5. Ibidem, p. 5.
6. Cf. CESARI, Il brigantaggio e l'opera dell'esercito italiano cit., pp. 105-106.
7. Cf. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Milano, 1964. cit., p. 139.
8. Cf. DE NONNO, op. cit., p. 10.
9. Su Antonio Secola si veda soprattutto Pel Barone Rosario Petruccelli
10. Dal matrimonio nacquero quattro figli che morirono tutti in tenerissima età: Michelarcangelo, Maria Rosa, Michelarcangelo Giosuè, Maria Celeste Rosina. (Ho attinto le notizie dall'Archivio Parrocchiale di Baselice).
11. Cf. Molfese, op. cit., p. 173;
12. Cf. A.S.N., Bngantaggio, fascio 4 cit., fascicolo 8.
13. Ibidem.
14. Da una memoria del nipote, il compianto dottor Nicola de Lellis, attualmente in mio possesso.
15. Cf. MOLFESE, op. cit., pp. 253-254.
16. Ibidem, p134.
17. Cf. Pel Barone cit., Interrogatori, p. 12.
18. Cf. MOLSESE, op. cit., pp. 255-256.
19. Ibidem p. 256.
20. Ibidem.
21. Cf. A.S.N., Brigantaggio, fascio 4 cit.; DE IACO, op. cit., p. 219.
22. Cf. MOLFESE, op. cit., p. 313.
23. Tra gli altri rimasero sul terreno Giuseppe Iarossi, Pasquale Bracale, Arcangelo Bibbò, Nicola Tambascia, nonché 5 fratelli: Felice, Carmina Maria, Vincenza, Maria Antonia e Maria Vittoria Valente, che stavano a lavorare i campi. Cf. A.S.N., Brigantaggio, fascio 4 cit., passim.
24. Ibidemcf. anche Molfese, op. cit., p. 3i3.
25. Tra i morti vi furono Achille Mariella, Basile Viesti, Giuseppe Fataloli, Donato Vinciguerra, Pasquale Ruggiero, Michele Lauro, Angelo D'Andrea, Antonio Circelii, Domenico Picciuto, Antonio Picciuto, Michelangelo Pelosi, Pasquale D'Onofrio, Michele Pepe, Giuseppe Furino, Biase Iannantoni, tutti di S. Bartolomeo, nonché Pasquale Santovito - soldato di Vietri - e Domenico Lo Prete, segretario di Pubblica Sicurezza. Cf. A.S.N.,Brigantaggio, fascio 4 cit., passim. -
26. Cf. Molfese, op. cit., p. 313.
27 Ibidem.
28 Ibidem; cf. anche DE NONNO, op. cit., pp. i4-i5.
29. Cf. CESARI, op. cit., pp. 115-116..
30. Cf. Archivio Parrocchiale di Montefalcone, Libro dei Morti della Parrocchia di S. Maria Assunta in Cielo di Montefalcone, cominciato l'anno 1841..., f. 51.
31. Cf. Molfese, op. cit., p. 133.
32. Cf. Molfese, Op. cit., p. 132; op. cit., pp. 154-155.
33. Cf. Masciotta, op. cit., p. 284.
34. In seguito a questo comportamento dei militi si ebbero parole di sdegno da parte del giornale "Nuovo Sannio", che accusò di "barbarismo" la Guardia Nazionale di Baselice. Il 18 gennaio ci fu la replica del chierico Donatangelo de Nonno, che diede alle stampe, per la tipografia di Giuseppe Carluccio, Napoli, poche pagine (un sedicesimo) dal titolo:Poche parole in difesa della Guardia Nazionale di Baselice.
35. Mia nonna Annarosa Raiola era solita narrare che quella sera D. Nicolangelo Iannilli disse al popolo, radunato in chiesa per la funzione liturgica, che avrebbe baciato lui per tutti il piede del bambinello Gesù, dal momento che quella era una serata di lutto.
36. Cf. Pel Barone cit., Rapporti e documenti, pp. 84.85; Documenti, p. 16.
37. Ibidem, Interrogatori, pp. 10-11. Antonio Colucci morì il 10 giugno 1864 per una malattia contratta in carcere; la moglie comparve davanti ai giudici del tribunale il 13 luglio successivo; venne assolta. (Cf. SANGIUOLO, p. 246).
38. Cf. Pel Barone cit., Interrogatori, pp. 13, 16.
39. Cf. SANGIUOLO, op. cit., p. 253La notizia della sua morte fu comunicata d'ufficio al Comune di Baselice, ove giunse tre anni dopo. Cf. Archivio Comunale di Baselice, Registri dello stato civile, anno 1888, n. 1, parte 2°, in data 20 giugno 1888.
40. Cf. Molfese, op. cit., p. 133.
41. Durante la lotta contro il brigantaggio morirono in Baselice cinque soldati ivi di stanza: Carta Salvatore di anni 19, nativo di Buono, soldato del 1450 reggimento di fanteria, morto nei locali del soppresso monastero il 21 dicembre 1862; Buccino Giambattista di anni 23 di Pontinivrea (Savona), soldato del 20° reggimento fanteria, 40 battaglione, prima compagnia, morto nei locali del soppresso monastero il 2 ottobre 1863; Venere Cosimo, di anni 26, da Taurisano (Lecce), soldato del 20° reggimento fanteria, 40 battaglione, prima compagnia, morto nell' ospedale in Casa Pizzicari il 28 novembre 1863; Basile Santo, di anni 21, da Lecce, soldato del 27° reggimento fanteria, morto nei locali del soppresso monastero il 25 gennaio 1864. Poveri giovani, morti in miserrime condizioni, in locali squallidi, su letti di paglia. Ho attinto queste ultime notizie dall'Archivio Parrocchiale Baselice.
42. La notizia è attinta da uno dei tanti fascicoletti che compongono il fascio 4 più volte citato del fondo Brigantaggio, conservato nell'A.S.N.
43. Avo dell'Avv. Antonio che da Roma mi ha gentilmente inviato fotocopia dei documenti da cui ho tratto le notizie riportate nel testo.
44. L'ultimo figlio del "furiere zappatore", il dottor Francesco, seguì le orme paterne, con una brillante carriera nell'Arma dell'Areonautica, di cui fu Tenente Generale Medico.